Oggi il nostro “Alfabeto dei Ricordi” celebra la I: I come IMBUTO, un oggetto largamente usato nelle case degli italiani perché il travasare, dal contenitore più grande a quello più piccolo, era un gesto abituale: eccolo, dunque, il grande bottiglione di vetro verde scuro che custodiva il prezioso olio usato con grande parsimonia…un olio denso, dal gusto pieno, rotondo che veniva poi travasato, grazie all’IMBUTO, nella bottiglia e poi, da quest’ultima, nell’oliera che si portava a tavola. Si travasava anche il vino, l’aceto…ma soprattutto si “travasavano”, dal più anziano della famiglia al più piccolo di età, anche antichi gesti e tradizioni, nonché valori, conoscenze e storie che venivano trasmesse con dolcezza e soavità e che sarebbero state tramandate di generazione in generazione…
Lungo via Partenope, scendendo dal quartiere San Ferdinando, o dopo aver percorso il lungomare Caracciolo, non si può fare a meno di notarlo: lui spicca sulla distesa di acqua salata, in tutta la sua elegante maestosità e già il nome serba in sé elementi di una leggenda antica. “Castel dell’Ovo”, difatti, si chiamerebbe così per quell’uovo che il poeta Virgilio avrebbe nascosto nei sotterranei dell’edificio e al quale avrebbe consegnato non solo il destino dell’intera fortezza, ma di tutta la città di Napoli.
Il Castel dell’Ovo al tramonto (Foto di Lorenza Fiorilli)
L’isolotto di tufo, il cui nome è Megaride, e sul quale svetta il castello, è unito alla terraferma da un delizioso ponte illuminato, al momento del crepuscolo, da une serie di lampioni che donano alla fortezza quel senso di magica ebbrezza che ti cattura e ti fa provare quasi un senso di smarrimento.
La magia dell’antica fortezza in uno scatto di Lorenza Fiorilli
Castel dell’Ovo visse poi alterne vicende nel corso dei secoli: complesso conventuale dei monaci benedettini, sede della corte di Ruggiero il Normanno, avamposto militare all’epoca dei Borbone, che procedettero a fortificarlo ulteriormente.
Il tramonto dalla terrazza di Castel dell’Ovo (Foto di Lorenza Fiorilli)
Attualmente Castel Dell’Ovo è visitabile e, dopo aver superato la scalinata d’ingresso, si sale fino alla terrazza dell’ultimo piano che ospita ancora, intatti, i cannoni, terrazza dalla quale il panorama è mozzafiato, specie al tramonto, quando il cielo si trasforma in una tavolozza di colori che vanno dal giallo intenso all’arancione, a quel rosso che incanta i sensi.
Un volo di uccelli salutano il sole che sta lasciando Napoli (Foto di Lorenza Fiorilli)
E quando si scende di nuovo e si supera il ponte, non si può andar via senza vistare il delizioso Borgo dei Marinari proprio ai piedi della fortezza che vorrai rivedere ogni volta che tornerai a Napoli.
Sulle note di una musica che sapeva di amore, ecco arrivare la protagonista del nostro “Alfabeto dei Ricordi la G, G come GIRADISCHI. Ah il giradischi! Parlare di lui è come ricordare un amico caro, complice, negli anni ’60, di quei lenti che tutti attendevano per stare guancia a guancia, per sentire l’altrui respiro sul proprio collo, per poggiare la testa sulla spalle del ragazzo che tanto faceva battere il cuore. Il giradischi era lì, testimone dei primi amori, di quella libertà che negli anni ‘60 i ragazzi cominciavano ad assaporare. E chi ha avuto il privilegio di sentire quel piacevole gracchiare che la puntina produceva sul disco, continua ad avvertirne l’eco nel proprio cuore…
Oggi la protagonista del nostro “Alfabeto dei Ricordi” è la F: F come FAMIGLIA.
Ci fu un tempo in cui la famiglia aveva il gradevolissimo odore di quelle pizze e di quelle torte impastate dalla mamma o dalla nonna e che sapevano di buono, di caldi abbracci, di attesa…
Ci fu un tempo in cui la famiglia avevo il gusto del pranzo domenicale e di quel sugo nel quale cercavamo sempre di intingere un pezzetto di pane…
Ci fu un tempo in cui i papà, la domenica pomeriggio, portavano con sé le radioline e le tenevano attaccate all’orecchio per ascoltare i collegamenti dai vari stadi di calcio.
Ci fu un tempo in cui la famiglia aveva i colori dei plaid che i nonni mettevano sulle ginocchia.
Ci fu un tempo in cui la famiglia era sinonimo dell’unico televisore domestico, anche se il più straordinario spettacolo non lo si vedeva nello schermo, ma era quella mamma ancora indaffarata, nonostante l’ora tarda, era quel papà in pantofole e quei figli che preferivano sistemarsi sul tappeto del soggiorno di una casa che strabordava di amore…
Continuiamo, carissimi amici, a ripercorre insieme il nostro “Alfabeto dei Ricordi”…siamo giunti alla E: E come “L’EDERA”, canzone d’amore cantata da Nilla Pizzi con Tonina Torrelli al Festival di Sanremo del 1958, anno del trionfo di “Nel blu dipinto di blu”, interpretata magistralmente da Domenico Modugno insieme a Dorelli. La canzone “L’edera” si classificò al secondo posto con i suoi 41 voti, ma pur se quell’anno non riuscì a competere con la forza travolgente della novità rappresentata da Modugno, la melodia cantata dalla Pizzi divenne il simbolo di un amore forte, viscerale, di un amore totale verso l’altro, verso l’altro del quale non si può più fare a meno. Di seguito, una delle strofe più famose: “Son qui tra le tue braccia ancor avvinta come l’edera, sono qui respiro il tuo respiro son l’edera legata al tuo cuore” …una dichiarazione più chiara di questa non credo possa esistere…
Ripercorrendo il nostro “Alfabeto dei Ricordi” ecco arrivare la D: D come DADAUMPA, canzone che divenne la sigla di apertura del programma televisivo ”Studio Uno”. Siamo negli anni ‘60 e le gemelle Kessler, direttamente dalla Germania, rubano i sogni degli italiani con la loro bellezza nordica… le lunghe gambe delle due tedesche verranno persino censurate dalla RAI che imporrà loro di indossare non più le calze velate ma quelle pesanti, completamente coprenti. DADAUMPA, con il suo ritornello che verrà cantato e ricantato e che ancora oggi in moltissimi ricordano, sarebbe diventato il simbolo di un’epoca, di un’Italia che si appassionava ai nuovi programmi televisivi di intrattenimento con cantanti e attori brillanti dell’epoca che sul palco si “punzecchiavano” tra loro in modo sempre garbato e rispettoso. DADAUMPA per dire che si era felici, DADAUMPA per dire i problemi sarebbero stati risolti con l’ottimismo e con l’entusiasmo, DADAUMPA per dire che una nuova era stava bussando non solo alle porte della società ma anche a quelle degli italici cuori…
Ecco arrivare la C, C come CARNEVALE: prima ancora dei famosi personaggi degli attuali cartoni animati e prima ancora delle varie fate e principesse degli anni ’80 e ’90 con i loro sontuosi abiti, ecco arrivare, sospinti dalla grande fantasia dei piccoli di tantissimi anni fa, lenzuola bianche che non si usavano più in casa, cappelli da cowboy fatti in cartone, penne lasciate in terra da qualche animale da cortile messe “strategicamente” sulla testa per vestirsi da indiani…sembra di vederli questi bambini che, con pochissimi mezzi, riuscivano a trasformare un momento dell’anno in attimi preziosi, da trascorrere con gli amici, con i quali non facevano a gara per il vestito più bello perché a vincere era sempre e soltanto lei: la fantasia che aveva ispirato e guidato la creazioni dei loro singolari abiti di Carnevale…
oggi tocca alla B, B come BICICLETTA, mezzo di locomozione per eccellenza in un’ Italia che ancora non aveva conosciuto la grandissima diffusione dell’automobile. Protagonista del memorabile film neorealista del 1948 diretto da Vittorio De Sica, “Ladri di biciclette”, una pellicola, questa, dal sapore dolceamaro, negli anni ’60, invece, la stessa bicicletta divenne il simbolo, per molti bambini, del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e non c’era cosa più bella che incontrarsi con gli amici e darsi appuntamento per una sana pedalata insieme o per qualche “ardimentosa sfida di velocità”. Possederne una significava essere “diventati grandi”, perché quando la mamma ti chiedeva di andare a prendere il pane o il latte nell’alimentari vicino casa, si inforcava la bicicletta e la si pedalava come se fosse un trofeo…un trofeo di libertà, una libertà che faceva rima con felicità…
Oggi partiamo dalla A, A come ALLEGRIA: e parlando di allegria cosa viene in mente se non il saluto di Mike Bongiorno, nome, questo legato al primo quiz della televisione italiana andato in onda nel novembre del 1955: “Lascia o Raddoppia”. Erano tempi, quelli, in cui di televisori, nelle case degli italiani, ve ne erano ancora pochissimi e così ciascuno portava con sé la sedia della propria cucina nell’appartamento di qualche fortunato vicino o nel bar di fronte per assistere, tutti insieme, a quello che sarebbe diventato un appuntamento irrinunciabile. Persino i cinema sospendevano la programmazione prevista per trasmettere il quiz. ALLEGRIA ovunque palpabile, ALLEGRIA per una nuova era che si era lasciata alle spalle le macerie, non solo reali, della guerra…e ALLEGRIA sembrava essere diventato davvero il motto di un’Italia speranzosa, che guardava al futuro con ottimismo, un ottimismo che avrebbe condotto dritto al “Miracolo Economico”…
Il percorso che, per 25 chilometri, conduce da Bolzano al Lago di Carezza, ti fa già assaporare lo spettacolo che ti attende proprio lì, ai piedi del massiccio del Latimar che ogni mattino saluta il nuovo giorno specchiandosi nelle acque del lago, a 1534 metri di altitudine.
Il Lago di Carezza (Foto di Lorenza Fiorilli)
Giunti sullo spiazzale dove è allestito il parcheggio delle auto, si transita per un passaggio, usciti dal quale non puoi fare a meno di chiederti se sei diventata, senza nemmeno accorgertene, Alice nel Paese delle Meraviglie.
Gli alberi che incorniciano lo specchio d’acqua (Foto di Lorenza Fiorilli)
Eccolo…è lì, sembra attenderti e tu, ammaliata come Ulisse dal canto delle Sirene, ti spingi il più possibile vicino a lui per ammirarlo, per farti rapire da cotanta bellezza: le acque che passano dal verde smeraldo al blu intenso, il Catinaccio e il Latimar che scorgi in lontananza, ma che sembrano così vicini, quegli abeti che fanno da corona a questo lago incastonato tra gli alberi e i monti…
Rimani immobile per decine di minuti, sino a quando non ti incammini per il sentiero che abbraccia l’intera circonferenza del lago.
Un particolare delle acque del lago (Foto di Lorenza Fiorilli)
Ma poi…poi ti fermi nuovamente e allora cominci a credere che le leggende non siano poi tali…e, così, ripensi alle storia che hai letto sul lago di Carezza: la bellissima Ninfa Ondina che abitava le acque e della quale lo stregone Latimar era perdutamente innamorato. Un giorno, per attirarla a sé, fece comparire sul lago uno straordinario arcobaleno che rapì l’attenzione di Ondina, la quale, dopo essersi accorta della presenza di Latinar, fuggì via impaurita. E così, lo stregone, in preda alla disperazione, prese l’arcobaleno, lo fece in mille pezzi e lo gettò nelle acque del lago che, da allora, riflettono i colori trasformandoli in un magico incanto, non solo per gli occhi, ma anche per l’animo.
Uno scorcio del sentiero che corre lungo il lago (Foto di Lorenza Fiorilli)
No…non vorresti andar più via… ti allontani, ma poi ti volti nuovamente verso il lago, poi ti incammini, ma non puoi fare a meno di ammirarlo ancora e ancora…e quando sei ormai in macchina e lasci il parcheggio, quello spicchio di lago che puoi ancora scorgere, già strugge il cuore di malinconia…
Lo spicchio di lago che ti saluta mentre si va via (Foto di Lorenza Fiorilli)