45° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poco prima che le sirene dell’ambulanza squarciassero l’aria, mi facesti cenno con la mano di avvicinarmi e di sedermi vicino a te, non sillabasti chiaramente le parole anzi, la tua bella voce stentorea sembrava soffocata, ma io riuscii, nonostante tutto, a ricomporre questo dolorosissimo puzzle di frasi a metà e capii che volevi avermi accanto, volevi vedermi. 

Poi, l’ultima tua richiesta, proprio mentre l’ambulanza stava voltando nella nostra via: “Non lasciarmi”.

Quante volte, nonno, ero stata io ad implorarti di restare ancora un po’ con me, nelle sere d’inverno quando, per non farmi prendere freddo, salivi tu da me per darmi la buonanotte. E così, incerta, piangente, addolorata, ero vicino a te, a stringerti le mano.

D’improvviso, sentimmo una sirena: era destinato a te quel suono sgradevole, lo stesso che avevamo sentito tante volte mentre eravamo comodamente seduti sul dondolo, mentre innaffiavamo le piante o mentre chiacchieravamo nello studio. E sempre ci chiedevamo, con il cuore stretto in una morsa, chi andasse a prelevare quell’ambulanza, in quale casa sarebbero entrati gli infermieri, chi avrebbero trovato a piangere, chi avrebbe lasciato la propria abitazione, senza neppure sapere se quella volta sarebbe stata l’ultima. Ma quel giorno di giugno, caldo, caldissimo, che faceva sciogliere quasi l’asfalto sulla strada, l’autoambulanza si sarebbe fermata sotto la nostra palazzina gialla, gli operatori del 118 sarebbero entrati dal grande cancello e saremmo state noi a piangere, a preoccuparci, a chiedere informazioni sul caso, a disperarci all’idea di saperti lontano da noi, mentre un interrogativo mi dilaniava l’anima: e se quella fosse stata l’ultima volta che vedevi la tua casa? Cosa avresti portato con te nell’aldilà? Forse l’immagine di noi due seduti sulle poltroncine di pelle marrone del corridoio, forse l’incantevole scenario di verde che si godeva dalla finestra della tua stanza da letto, forse il volto improvvisamente invecchiato della nonna, forse il mio viso da bambina che, mi dicevi spesso, ti appariva davanti agli occhi nei momenti di difficoltà? Mentre tutte queste idee affollavano la mente, affogandola in un mare senza risposte, l’ambulanza rallentò mentre si stava avvicinando a casa. E fu così che si fermò sotto la nostra palazzina, che normalmente a giugno era già pronta per l’estate, con il mattonato della veranda tirato a lucido, il dondolo con i morbidi cuscini colorati, l’ombrellone incastrato nella base di cemento, con le sdraio, con il braciere pronto ad accogliere le melanzane e quei saporitissimi peperoni della tua campagna. Invece quel giugno del 2001 iniziava tristemente così, con un’ambulanza che si fermava sotto il grande cancello di ferro battuto.

44° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Solevi dire spesso, nonno, che la vita somigliava ad una ruota, dove l’ultimo spicchio era il vicino di casa del primo e come gli estremi non facevano fatica a toccarsi…così avvenne anche per te, che a 79 anni sembravi essere tornato un bambino di pochi mesi, tanto il tempo che trascorrevi a letto a dormire. Ma io volevo riempire ogni tuo momento e capivo che questo era anche un tuo desiderio.

Ecco perché mi affacciavo spesso dal balcone della cucina al piano superiore per vedere quando gli scuri erano aperti, in modo da scendere subito giù da te per farti compagnia, per lenire un dolore sordo, per riempire un vuoto che stava già crescendo dentro di me.

L’ultimo mese, nonno, fu una corsa agli ostacoli, una partita di poker, un incontro di boxe, una corsa contro il tempo. Quando gli scuri si aprivano, di corsa afferravo le chiavi e prima ancora che la nonna lasciasse la tua stanza da letto, io ero già sul balcone, a bussare ai vetri della porta-finestra.

Quel mese di maggio registrò anche un evento rilevante per la nostra cittadina: il Giro d’Italia fece tappa nella nostra città e con i ciclisti in volata sul lungomare, arrivarono anche colori e suoni che tanto avrei voluto condividere con te. Tu seguisti il percorso in televisione e così feci anch’io ma proprio quando i ciclisti erano quasi arrivati al traguardo, tu mi pregasti di andare e di vedere quello spettacolo, anche per te. Mi dicesti che da quel giorno in poi io sarei stata le tue gambe, oramai fragili, i tuoi occhi, destinati a guardare solo la casa ed il giardino, le tue orecchie ormai confinate sopra un cuscino. Corsi via, rattristata ma al contempo fiera e felice per quelle parole che mi dicesti. I ciclisti passarono velocemente e fu uno spettacolo sentire l’aria tagliata dai raggi brillanti delle ruote.

Ma il vero spettacolo ce lo regalò il giorno successivo la volata: dalla piazza centrale e giù per tutto il lungomare, erano parcheggiate le macchine degli sponsor la manifestazione e ciascuna portava sul tettuccio una riproduzione in cartapesta dell’oggetto sponsorizzato. E poi, ancora, stands pubblicitari, palloncini, biciclette, e ciclisti pronti a firmare l’autografo. Tornata a casa, ti descrissi dettagliatamente tutto quello che avevo visto, come una diligente scolara, come un sergente fa con il proprio superiore. Ecco, nonno, in quel momento di così profondo sconforto, avrei barattato, anche solo per un giorno, la mia forza fisica con la tua debolezza, le mie gambe robuste con le tue oramai fragili, le mie spalle dritte con le tue oramai curve. Ma non potevo farlo, dovevo solo accettare la tua decadenza fisica resa ancora più dura dalla tua lucidità mentale, dal tuo essere presente nonostante quel tuo corpo che “Non rispondeva più ai comandi”, come dicevi.

43° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il mattino del 17 maggio 2001, il giorno del tuo onomastico, scesi da te, nonno…eri in camera da letto, seduto sulla poltroncina di velluto color nocciola, mi sorridesti, io mi misi a sedere sul tappeto, accanto alle tue gambe coperte dal plaid.

E ti porsi il mio regalo…il mio regalo…e così, tremante, sfilai la lettera dalla tasca dei miei pantaloni.

Cominciai a leggerla e mentre andavo avanti, vidi i tuoi occhi velarsi di lacrime. La lettera parlava di te, del tuo attaccamento viscerale alle cose che più amavi e che più avevi amato nel corso dei tuoi 79 anni. Menzionai, ad esempio, quella cartella di pelle nera che solevi agganciare alla canna della tua bicicletta, nonostante gli anni l’avessero resa piena di rughe ed appannata nel colore, tu non te ne separasti ma Così avvenne anche per la tua penna stilografica, quella color argento. Poi, però, arrivò quel Natale ed io ti regalai un cappello di lana blu. Tutti pensavano, me compresa, che non l’avresti messo mai perché non ti saresti separato da quel berretto di lana color giallo paglierino. Lo vidi in vetrina, entrai nel negozio e chiesi un pacchetto regalo. Ero impaziente di consegnartelo, tanto che non aspettai neanche il 24 dicembre per dartelo, ma te lo feci scartare qualche giorno prima. Ti dissi che ero sicura che non l’avresti indossato mai perché tu eri così, tremendamente attaccato a quelle cose che possedevi da qualche tempo ma era un regalo mio, era un cappello del quale mi ero perdutamente innamorata. Era per questo motivo che l’avevo acquistato, pur sapendo che non avresti mai mandato in pensione il tuo fedele berretto giallo paglierino.

Tu non dicesti nulla, mi ringraziasti e piegando a metà il mio cappello di lana blu, lo riponesti nel secondo cassetto del comò. Venne la vigilia di Natale, stranamente non eri ancora seduto a tavola mentre noi eravamo lì in cucina, la sorpresa di quel Natale la portavi tu sulla tua testa: indossavi il cappello che ti avevo regalato io e come a far finta di niente, ti accomodasti e dicesti alla nonna che poteva cominciare a porgere i piatti.

Noi ti guardavamo con stupore, tu con un sorriso di chi ha capito, dicesti che era venuto il momento di cambiare cappello, perché questo blu era più caldo, più elegante, più bello.

La lettera che ti lessi quel mattino del 17 maggio 2001 terminò con un felice parallelismo: ti dissi che l’unico regalo che potevo farti in quel momento era un vestito d’amore, un pigiama di ricordi, una stola d’amore e speravo che l’avessi accettato, come accettasti tanti anni prima quel cappello di lana blu.

Balbettai pronunciando queste ultime parole. Io avevo il capo chinato verso il basso per non farti vedere che stavo piangendo, tu lo capisti lo stesso e con la mano desta mi tirasti su per il mento, mi guardasti negli occhi ed asciugasti le lacrime, senza dirmi niente. Fu un mattino speciale…fu l’incontro tra due persone che si erano amate tanto, ma che erano consce della separazione che di lì a poco sarebbe avvenuta.

42° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Lo ricordo ancora chiaramente, sì, lo ricordo, e non potrei non farlo…fu un istante e quasi senza accorgermene, tu, nonno, mi prendesti per il polso come facevi quando ero piccola, fino a condurmi davanti alla finestra della tua stanza da letto.

Non dicesti nulla, ti limitasti ad indicare fuori le piantine di pomodoro che avevano conosciuto, proprio in quei giorni di un caldo quasi estivo, una crescita miracolosa: i pomodori erano appena accennati ma sarebbero diventati grandi e rossi. Anche quando sembra non ci sia più un motivo per continuare, qualcosa ti ricorda che gli altri hanno bisogno di te per andare avanti, per crescere e fiorire. E allora sì che la speranza diventa un dovere morale. Sembrava tutto così normale lì fuori nell’orto, sembrava essere nient’altro che una calda giornata di maggio: le piantine, che di giorno in giorno stavano diventando sempre più forti, nulla potevano presagire di quello che di lì a due mesi sarebbe accaduto in quella casa, la natura faceva il suo normale corso, tutto scorreva ed andava avanti, il fiore di zucca stava già timidamente ergendosi sullo stelo spinoso, così come i pomodori aspettavano impazienti il sole di luglio e di agosto, per poter regalare a tutti il loro profumo, il loro sapore.

Leggesti, nonno, nel mio sguardo, il profondo stato di disagio nel quale mi trovavo e mi lasciasti andare, staccasti la tua dolce presa dal mio polso e senza girarti, mi permettesti di allontanarmi da te, da te che eri ancora affacciato al davanzale. Corsi su per le scale, poi però scesi subito di nuovo per andare in giardino a vedere se dall’orto riuscivo a scorgere la tua figura affacciata alla camera da letto. No, non c’eri già più, gli scuri appannati mi avvertivano del fatto che, nonostante fossero appena le undici del mattino e ti fossi alzato dal letto se non poche ore prima, il tuo fisico, ormai stanco, aveva già richiesto altro riposo. Tornai allora di corsa al piano superiore.

E mentre salivo i gradini, riflettei sul fatto che c’è un tempo per tutte le cose, esiste un tempo per vivere, uno per lottare, uno per sperare, uno per rinunciare. Ero pienamente consapevole che stavi attraversando quest’ultima fase del percorso della tua vita terrena. Dopo pranzo scesi nuovamente da te, ma la nonna mi informò prontamente del fatto che stavi ancora dormendo, che non ti eri alzato nemmeno per mangiare e che chiedevi solo dell’acqua perché lamentavi una certa secchezza delle fauci, ma non la bevevi tutta l’acqua del bicchiere, ti limitavi a bagnarti le labbra.

La nonna mentre mi raccontava quest’ultima dolorosissima novità, cominciò a piangere come faceva lei, con la bocca che tremava e con le mani che giravano nervosamente quel piccolo fazzoletto rosso inglese che in inverno era solita nascondere nella manica del vestito di flanella. Cominciò a dire che non era più tanto sicura che saresti guarito, anzi, che forse tra non molto ci avresti lasciato. Poi, appena pronunciate queste parole che sembravano crude e vere come una confessione, si sentì quasi in colpa per averle pronunciate e allora replicò a se stessa ammettendo, candidamente, che forse avevi solo del mal di gola, che eri stanco perché si era passato, quell’anno, troppo velocemente dal freddo al caldo, che saresti stato meglio e poi… e poi che tra dodici giorni sarebbe stato il tuo onomastico.

41° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Fu davvero un pomeriggio speciale, nonno, quello trascorso nella quiete magica del tuo studio, baciato dai tiepidi raggi di sole ed abbracciato dalla brezza che faceva gonfiare la leggera tenda di lino bianca che tu amavi scostare spesso dai vetri, per poter ammirare il petto d’angelo, l’elegante e raffinato arbusto che avevi piantato tanti anni prima.

Dopo aver concluso ilnostro lavoro che mi aveva consentito di imparare a memoria l’intera poesia da recitare il giorno successivo a scuola, rimanemmo nella stanza dai marmi rosa e bianchi ancora per un po’, rapiti da quella luce che ho visto solo nelle nostre case, nonno. Ancora oggi mi succede di poterla godere, nel grande soggiorno al piano superiore, nella cucina che si affaccia sul giardino, nel tuo studio, nel salone con il divano in pelle e legno, nella camera da pranzo con l’imponente lampadario di cristallo.

Ho visitato molte case, nonno, ma in nessuna sono riuscita mai a captare quell’inclinazione particolare della luce che entra nelle nostre stanze: è un fascio che entra di traverso e che va a posarsi sull’angolo del tavolo di noce, sulla sedia di paglia, sull’anta della libreria, sulla chiave della credenza.

Entra prepotentemente e gentilmente si adagia sul pavimento, sul mobilio, sulla cornice di un quadro e rimane lì, quasi a voler godere anch’essa di quell’armonia, di quella serenità che, nonostante tutti gli avvenimenti, ancora regna nella nostra casa. Questa luce un po’ speciale è da mezzo secolo l’ospite non invitata ma molto gradita delle nostre giornate, delle nostre mattine trascorse in cucina a preparare il pranzo, dei nostri pomeriggi passati a lucidare l’argenteria.

È la stessa luce che s’incunea tra i rami del limone e va a adagiarsi sulla palma, è la stessa luce della quale andavo alla ricerca per tutta casa quando ero bambina, nei caldi pomeriggi d’estate. Tutto è cambiato, nonno, e tu ben lo sai. Eppure, io continuo ad amare quella luce che sembra riportarmi indietro alle nostre giornate felici.

È quasi inspiegabile, nonno, questa continuità delle sensazioni che provo, questo esserci nella vostra assenza che pesa sino, delle volte, a diventare insopportabile. E proprio nel momento in cui ci si lascia afferrare dalla disperazione, nessuno di noi ne cade vittima, perché, all’improvviso, viene quella mano dal cielo in aiuto, proprio come nella poesia de ”Il Cinque Maggio”. E allora tutto quello che è rimasto, rivive vivificato dal ricordo di te e di chi non c’è più, e quella stessa luce che entra ancora nelle nostre case, ci dona sollievo e ci induce a pensare che è la stessa che anche voi potete vedere da lassù. Siamo un po’ tutti Napoleone nel corso della nostra vita, eppure la speranza è un obbligo, se si decide di non soccombere, di continuare a vivere, non a sopravvivere, ma a vivere, nella speranza e nella gioia.

“Di nuovo, la mia vita…”: la testimonianza di Chiara

 

Mi ha contattato: “Buongiorno, sono Chiara. Vorrei raccontare la mia esperienza…o meglio le mie emozioni…quello che si prova dopo che ci si riappropria della vita, dopo che arriva quell’esito negativo tanto sperato…dopo che si riprende tutto con una nuova carica di entusiasmo”.

Un’Immagine simbolo di quello che Chiara non ha apprezzato per tanto tempo: una splendida giornata di sole, quella che tante volte lei non aveva apprezzato ( Foto di Lorenza Fiorilli)

E così ho ascoltato la storia di Chiara, la quale mi ha chiesto di scriverla come un breve racconto: è quello che ho fatto.

Chiara: una vita tra famiglia e lavoro, impegni quotidiani, il traffico in città, qualche chilo di troppo che fa tirare i jeans sulla pancia, la ruga ai lati della bocca e quel colorito che non è più quello dei venti anni…

E poi un giorno, un giorno come tanti…e Chiara che, invece di recarsi al lavoro, va dal medico: un controllo di routine.

Entra nella stanza dello specialista, spiega il motivo del controllo:” Nessun sintomo e nessuna familiarità”.

Fa quello che il medico le dice di fare nella semioscurità della stanza.

Quel gel freddo procura a Chiara quasi una vertigine…

Il medico è in silenzio, non dice nulla, è lei che chiede se va tutto bene.

“C’è un nodulo…non è molto grande…le dico tutto terminata l’ecografia”.

Chiara è lì, sdraiata sul lettino e mentre sta fissando il soffitto di quella stanza, ripensa ai giorni precedenti: ai jeans che tiravano sulla pancia, alla scoperta di quella ruga ai lati della bocca, al colorito che non è più quello dei venti anni…ma pensa anche ai viaggi mancati, a tutto quello che non appezzava da troppo tempo, come quel sole splendente che l’aveva accompagnata sino allo studio medico, quel mattino, e che l’avrebbe accolta quando sarebbe uscita da lì.

 

“Può rivestirsi”, le dice il medico e quella camicia bianca le sembra già l’abito di un malato.

Lo specialista le spiega tutto in maniera accurata tutto e fissa un appuntamento per un ago aspirato “Solo questo potrà dirci se il nodulo è maligno o benigno. Purtroppo ha delle caratteristiche che non ne escludono la malignità, anche se ce ne sono altre che potrebbero suggerire la benignità”.

Intanto il marito la chiama per telefono: “Chiara, tutto bene?”

“Ne parliamo a casa” risponde lei…lei che intanto si rimette nel traffico…lei che piange per tutto quello che non ha visto in quegli anni, che ha dato per scontato.

La notte non dormirà, la notte sarà affollata di interrogativi…

Il giorno dopo, al lavoro, non è più lei: non parla con nessuno e avrebbe solo voglia di piangere, quello che farà nei giorni successivi, sino a quell’ago aspirato, quando, sdraiata sul lettino dell’ambulatorio, le sembrerà che quell’ago le stia aspirando anche un po’ di sé, e di quella vita che non ha apprezzato a sufficienza.

I giorni che la separano dalla risposta del referto sembrano procedere così lenti, così lenti, così lenti…

Poi quella risposta e la vita cambia, di nuovo, forse per sempre: “Negativo”.

Il sole che splende sul mare: il simbolo della rinascita di Chiara (Foto di Lorenza Fiorilli)

Chiara esce dall’ambulatorio sventolando quel referto in aria, con  i jeans che le tirano sulla pancia, con la ruga ai lati della bocca, con quel colorito che, però,  oggi è diverso, perché Chiara è rinata: non ha più 39 anni oggi, ne ha 13, al massimo 14…e una vita, nuova, davanti.

Alessandra Fiorilli

40° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Sì, ci regalammo un pezzo della mia infanzia, quel mattino, quando tornammo indietro con la mente a quel 5 maggio 1984…ricordi, nonno, io, dopo essere rientrata da scuola, mi precipitai nel tuo studio dicendoti che avrei dovuto imparare a memoria, per il giorno successivo, l’intera poesia del Manzoni, accompagnata anche da una serie di considerazioni personali.

Continuavo a camminare nervosamente per l’elegante studio con a terra i marmi rosa e bianchi. Tu mi seguivi con lo sguardo sino a quando mi invitasti a tornare giù da te e dalla nonna per mangiare le fettuccine con i ceci che tanto mi piacevano, poi, dopo pranzo, ci saremmo messi a studiare insieme la poesia nello studio dominato da quel bellissimo arbusto che ancora arricchisce di verde e di fiori candidi le mie giornate di scrittura.

Così feci, ma anche quel prelibato primo piatto preparato dalla nonna sembrava privo di sapore perché la mia mente era lì, adagiata su quei fogli di quaderno zeppi di parole da imparare a memoria. Quel giorno fu veramente un giorno particolare perché, per placare la mia preoccupazione di bambina, rinunciasti persino al tuo sonnellino pomeridiano. Non mangiammo neanche il secondo io e te, ma ci precipitammo nello studio ad aprire quel quaderno minaccioso.

Tu mi invitasti a leggere la poesia per intero, facendo attenzione ad ogni singola parola e dando la giusta intonazione. Feci quello che mi dicesti di fare, senza polemiche o senza dubbi, perché i tuoi consigli avevano sempre dato buoni frutti, a noi tutti bastava seguirli e tutte le paure, tutte le preoccupazioni, sembravano svanire di fronte a quella sicurezza che tu riuscivi ad infondere nell’animo di tutti. Cominciai a leggere ad alta voce, le parole che uscivano dalla mia bocca stavano prendendo forma e, mentre la lettura della poesia procedeva, la mia fantasia costruiva un percorso parallelo, fatto di immagini mute che accompagnavano quelle parole scritte con la penna blu. Sembrava di vederlo Napoleone, prima vittorioso e spavaldo, poi solo e disperato nell’Isola di Sant’Elena, in esilio.

La poesia mi stava piacendo, sembrava essere un’altra ode rispetto a quella che avevamo letto in classe, tra le proteste dei miei compagni e l’irremovibilità della maestra, la quale continuava a ripetere che il giorno successivo avrebbe interrogato tutti, non ammettendo nessuna giustificazione. Io alzavo di tanto in tanto la testa da quel quaderno e ti vedevo assorto, talvolta chiudevi gli occhi per assaporare ogni singola parola, eri un uomo eccezionale, nonno, capace di provare un’emozione anche di fronte ad una poesia che tu sapevi a memoria. In questo sta la grandezza di una persona, solevi ripetermi spesso: nella capacità di essere leali di fronte ai bisogni del proprio animo, coerenti e fedeli verso ciò di cui la nostra mente ha bisogno per sentirsi viva, libera e felice. Scontato emozionarsi di fronte ad un paesaggio mozzafiato, ad un’opera d’arte che si ammira per la prima volta, difficile far rivivere quell’emozione ogni qualvolta si guardi quel paesaggio o quel quadro. In questo risiede la vera felicità, quella che ci rapisce e ci porta lontano, al di sopra della meschinità, della falsità, della retorica, delle frasi dette e non pensate, dei pensieri pensati e non detti. Questo significa amare, ma amare per davvero, senza infingimenti o condizioni di comodo, senza secondi fini, senza pensare che una nostra azione debba necessariamente essere seguita da un’altra simile, compiuta dalla persona alla quale l’abbiamo donata liberamente e con gioia. Ecco, tu eri così, nonno: il tuo animo era puro, talmente puro da emozionarsi all’ascolto di una poesia che conoscevi sin dai tempi delle elementari.

39° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Era la mattina del 5 maggio, e tu, affacciandoti dalla finestra della camera mi chiamasti, pregandomi di scendere giù da te. Mi precipitai per le scale e mille pensieri affollarono la mia mente, le mani erano tremanti e sudate, la testa sembrava di piombo, nulla faceva presagire che quel tuo invito mattutino potesse essere, nonostante la tua malattia ormai avanzata, così straordinariamente piacevole.

La prima, inaspettata, sorpresa l’ebbi quando ti vidi seduto sulla poltroncina di pelle marrone del corridoio e non sdraiato nel tuo letto. Mi regalasti un’immagine serena di te, impaziente com’eri di iniziare un altro giorno con me. La porta-finestra era già aperta e proprio nel momento in cui la spalancai, mi accogliesti con un sorriso, invitandomi a prendere posto sull’altra poltroncina di pelle, felice ed orgogliosa testimone di tante nostre chiacchierate.

Dunque era il 5 maggio, possibile mai che questa data non mi suggerisse niente? Passai rapidamente in rassegna tutti i compleanni, tutti gli onomastici, tutti gli anniversari, tutte le date più importanti e rilevanti per la nostra famiglia, ma nessun evento particolare era datato 5 maggio.

Tu intanto, di fronte al mio imbarazzo crescente, sorridevi bonariamente fino a quando, dopo l’infruttuosa attesa, pronunciasti il nome di Alessandro Manzoni. Ma certo, Manzoni, Il Cinque Maggio, la poesia che parlava di Napoleone! Come non pensarci prima! Mi sorprendesti una volta di più quel giorno perché, nonostante la tua malattia avesse reso insicuri i passi e il respiro affannoso, la tua mente era ancora lì, con me, tra i libri che tanto amavi ancora sfogliare, con le date storiche, con gli avvenimenti più importanti della storia dell’uomo, con la voglia di ricordare, di recitare a memoria la famosa poesia del Manzoni, di essere vivo e presente con la mente, con l’anima, nonostante il tuo corpo affermasse il contrario.

Tu eri ancora qui, con me, la tua voce meno stentorea ma vibrante, in grado ancora di dare un significato alle parole dell’ode, regalandogli un’intonazione diversa a seconda del contenuto. Avvenne un fatto straordinario: la forza travolgente della cultura, la bellezza incomparabile del sapere vinsero, quel mattino, sulla tua malattia.

Non c’era più nulla della tua sofferenza: la cosa che avrei ricordato per sempre, di quel 5 maggio 2001, sarebbe stata quella poesia recitata all’unisono e quella lezione di vita che ne scaturì. Credo che lo facesti anche tu, quel giorno, il gioco di annullare una dimensione spaziale fatta di dolore e sofferenza, perché la pelle del tuo viso era tornata distesa, il tuo sorriso pieno e schietto, i tuoi occhi con le pagliuzze d’oro.

38° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poi, nonno, tu mi dicesti che avresti voluto riposare un pò, io allora accostai gli scuri delle finestre, ti sistemai le lenzuola sulle gambe, ti aiutai a mettere per bene il cuscino sotto la tua testa, tu mi stringesti la mano, ma prima di chiudere l’uscio dietro di me, mi chiamasti per lanciarmi il bacio con le dita unite come per consolarmi della tua sofferenza, come per dirmi di andare avanti.

Fuori la camera da letto ad aspettarmi c’erano la mamma e la nonna entrambe preoccupate, entrambe con gli occhi gonfi di lacrime trattenute a stento. Loro avrebbero voluto chiedere ma non lo fecero, io avrei voluto consolarle ma non lo feci, tu avresti voluto rimanere con noi, con le tue donne, come amavi chiamarci sempre, ma non potevi.

La vita è proprio questo camminare come funamboli sul filo di un’emozione, per poi rimanere lì, immobili, senza muoversi, senza riuscire a prendere una decisione: camminare o cadere giù.

Allora si decide di rimanere fissi ad osservare quel punto quasi a voler fermare il tempo, quasi ad aspettare che qualcun altro venga in nostro aiuto e prenda una decisione anche per noi. Invece non è mai così, siamo sempre e solo noi gli unici artefici del nostro destino, unici responsabili delle nostre decisioni. Io mi limitai a dire alla mamma e alla nonna che, nonostante tutto, eri consapevole e sereno. Di cosa, lo sapevamo tutte e tre. La nonna andò in cucina e tentò di preparare la cena. Aveva comprato due mozzarelle di bufala…due nonno, una per lei e una per te, pur sapendo che non avresti cenato, pur sapendo che ti avrebbe trovato nel vostro letto, pur sapendo che avrebbe dovuto apparecchiare per una sola persona.

Tutto sembrava, in quei giorni, così difficile… ma poi ritornò alla mente quella tua frase: “Sursum corda”, che in latino significa “In alto i cuori”. E allora tornò il coraggio di riprendere in mano la nostra vita.

37° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Nella fretta di correre da te, nonno, inciampai nel lembo del tappeto, sbattendo violentemente le ginocchia a terra e tu, sempre con infinito amore, mi chiedesti se mi fossi fatta male ed io, con le ginocchia rosse, minimizzai l’accaduto. Fu allora che, dopo esserti messo seduto sul bordo del letto e aver sorseggiato la tua acqua minerale, cominciasti a ricordare, a voce alta, quel mio piccolo indicente con la bicicletta di tanti e tanti anni prima.

Ebbi modi di constatare quanto fosse ancora viva la tua memoria e quanto fosse per te importante ricordare perché la memoria, amavi dire spesso, ci permette di riconoscere un pericolo e di schivarlo: essa non è solo la custode del nostro passato ma anche la sentinella del nostro futuro, la memoria può farci ricordare con la stessa intensità momenti spiacevoli ed altri bellissimi, ma poi sono sempre questi ultimi a darci la forza per non farci trascinare via dalla disperazione. Dunque, tu cominciasti a raccontare di quel piccolo incidente e della mia prima bicicletta che avevo ricevuto senza dover faticare molto, perché, nella nostra famiglia, da sempre, tutti ne avevano avuta una e ciascuno l’aveva amata come fosse stata un’amica, una fedele compagna.

Non poteva essere altrimenti, visto che eri stato proprio tu, nonno, ad infonderci la passione per le due ruote, le stesse che ti avevano condotto al lavoro per 40 anni. La bicicletta era un’altra cosa, solevi dirci con gli occhi sognanti… la bicicletta non è solo un mezzo di locomozione, è libertà, è assaporare la fatica di una salita ed il gusto di una discesa, è il vento nei capelli, è la camicia che si riempie d’aria, è il foulard che svolazza, è come dovrebbe essere la vita: semplice e lieve.

Poi ecco il ricordo che serbavi ancora nella mente: l’immagine di me, piangente a terra, con il ginocchio sanguinante a causa della caduta su dei sampietrini appuntiti che stavano sistemando lungo la strada. Tutto si risolse con un mio fragoroso pianto ma per fortuna non ci fu bisogno neanche dei punti.

Nell’istante stesso in cui stavi ricordando l’accaduto di tanti anni fa, nonno, sembrava non esistesse più nulla: la tua malattia, le mie lacrime notturne, le incognite del futuro e io ero di nuovo bambina, e tu il mio nonno forte, l’uomo che infondeva coraggio e fiducia, l’instancabile Cavaliere che non conosceva sosta…allora pensai che eri ancora tu e sempre tu, nonostante il vigore fisico non sarebbe stato più fedele compagno dei tuoi giorni. Ma eri ancora tu, sì, tu con il tuo amore, con il tuo modo di parlare e di farci vedere sempre il meglio delle cose.