Sul finire del 1600 faccio la mia comparsa sulle tavole toscane: custodisco, nel mio impasto, di farina, zucchero e chiara di uovo, come scrive di me la prestigiosa Accademia della Crusca.
Qualche anno dopo aggiungono anche le mandorle, ma bisognerà attendere il 1800 affinché io possa assumere le fattezze che oggi tutti conoscono ed apprezzano.
Ho
l’onore di essere portato persino a Parigi, in occasione dell’Esposizione
Universale del 1867.
Nasco da un impasto a forma di filoncino a base di farina, zucchero, uova, burro, miele e mandorle che viene poi tagliato a fette, e non è un caso che il mio nome cantuccino, derivi proprio “cantellus” che, in latino, significa pezzo o fetta di pane.
I deliziosi cantuccini IGP (foto di Alessandra Fiorilli)
Ho molti fratelli sparsi in tutta Italia: nel Lazio ed in Umbria si chiamano tozzetti, in Basilicata stozze e in Sicilia tagliancozzi. Siamo tutti buoni ma, mentre alcuni di loro sono preparati anche con nocciole o gocce di cioccolata, io seguo l’antica ricetta perché mi fregio del marchio IGP, Indicazione Geografica Protetta.
Il mio compagno di avventure è il Vin Santo, ottenuto da uva trebbiano o malvasia e lasciata appassire dopo la raccolta.
L’aggettivo “Santo” sembra derivi dal fatto che un frate francescano, mentre la peste si era impossessata di Siena, nel XIV secolo, avesse curato dei malati proprio con il vino usato durate la celebrazione eucaristica.
Altri raccontano che qualcuno, giunto a Firenze dalla Grecia, assaggiando il vino, avesse detto che tanto somigliava al loro “Xatos”, il passito greco e da qui, per assonanza, il nome italiano di “Santo”.
Qualunque sia la sua origine, il Vin Santo è il mio compagno preferito perché mi ammorbidisce, rendendomi irresistibile e non c’è mai nessun turista che vada via dalla Toscana senza avermi gustato e io, ogni volta, mi lascio andare languidamente…
“E’ in corso uno screening gratuito organizzato dalla Regione Lazio rivolto alle donne di età compresa tra i 30 e i 64 anni, finalizzato alla ricerca del Papilloma Virus (HPV).
Questo test sta sostituendo il pap-test in quanto molto più efficace e sensibile, per la diagnosi precoce delle lesioni del collo dell’utero provocate dall’HPV, le quali possono evolvere in tumori della cervice uterina”.
Inizia così l’intervista con la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana, la quale, in merito a questa novità nel campo dello screening per l’individuazione del tumore al collo dell’utero, così si esprime :” Molte pazienti mi hanno chiesto delucidazioni riguardo all’invito, ricevuto dalle ASL di appartenenza, a sottoporsi al programma di prevenzione del tumore del collo dell’utero. Questa intervista è un’ottima occasione per fare chiarezza sull’argomento. L’HPV è considerato ilprincipale responsabile dei tumori della cervice uterina; ne sono stati individuati circa 200 ceppi,ma soltanto alcuni di loro sono a rischio oncogeno (ceppi ad alto rischio).
Il test HPV HR offerto dalla Regione Lazio individua i ceppi ad alto rischio (HR), e pertanto le donne maggiormente predisposte a sviluppare lesioni precancerose indotte dal virus. In caso di esito negativo, il test verrà ripetuto dopo 5 anni.Nel caso in cui il test rilevi la presenza dell’HPV, verrà analizzato anche il vetrino del PAP test, prelevato contestualmente”.
La Dottoressa Francesca Sagnella, Ginecologa
E le donne che contraggono l’HPV cosa debbono fare? “Non esistono ancora medicine per curare l’HPV. Quel che possiamo fare è trattare le eventuali lesioni provocate dal virus. L’esame da fare, in caso di positività del test, è la colposcopia, ovvero un ingrandimento del collo dell’utero; se poi la situazione richiede un approfondimento, si esegue una biopsia e, in caso di necessità, si asporta la porzione del collo dell’utero sede della lesione (conizzazione) “.
Le donne che contraggono il virus dell’HPV hanno timore che ciò possa avere ripercussioni sulla fertilità: “Nella maggior parte dei casi non ci sono conseguenze sulla fertilità e l’infezione da HPVnon costituisce una controindicazione al parto vaginale, salvo particolari eccezioni. Tuttavia, inalcuni casi, è possibile che aumenti il rischio di alcune problematiche ostetriche come, ad esempio,il parto pretermine. Questa complicanza è più probabile qualora la paziente abbia subito una conizzazione molto estesa.”
Si
tratta di un esame invasivo? ”Assolutamente no: la modalità di esecuzione del prelievo di celluleper l’HPV test è semplice
e sovrapponibile a quella che si utilizza per il Pap-test.
L’analisi di laboratorio è invece molto più complessa, trattandosi di un test genetico che va a ricercare il DNA del virus. Per questo motivo ha un costo più elevato”.
Non a tutte le donne è consigliato sostituire il pap-test con l’HPV test: “Nelle più giovani si preferisce effettuare il pap-test, in quanto si stima che circa l’80% delle donne, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, contragga il virus dell’HPV almeno una volta nella vita, con conseguente risoluzione spontanea dell’infezione. Si stima che il virus venga eliminato spontaneamente nel 50% dei casi entro un anno e nell’80% dei casi entro due anni”.
La principale via di trasmissione: “E’ quella sessuale, anche in assenza di rapporti completi, inquanto può avvenire anche attraverso il contatto tra mani e mucose o tra le mucose stesse. Anche il profilattico è meno efficace nel proteggere dall’HPV, rispetto ad altre infezioni , proprio perché copre solo una parte delle zone potenzialmente “abitate” dal virus”.
In caso di esito positivo dell’HPV test: “Il Partner deve essere informato, ovviamente, ma c’è da dire anche che tale virus non sempre si manifesta e spesso l’uomo può essere un portatore sano,avendo
potuto contrarlo molto tempo prima, magari da un’altra donna”.
Cosa si può fare, quindi, per prevenire questa infezione? : ”L’unico metodo per prevenire l’infezioneè la vaccinazione. Dal 2008 è partita la campagna di vaccinazione gratuita, per le ragazze nel 12° anno di vita; dal 2017 la stessa vaccinazione è rivolta anche ai maschi”.
Che tipo di protezione offre il vaccino HPV?: “Esistono diversi vaccini che si distinguono per il numero di ceppi contro i quali è attivo. Il vaccino che viene utilizzato attualmente (Gardasil 9) èrivolto contro 9 ceppi, tra i quali i 7 più pericolosi (responsabili del 90% circa dei tumori della cervice) e due ceppi a basso rischio, responsabili dei condilomi genitali”.
Molte mamme temono che il vaccino
possa essere pericoloso. Come possiamo rassicurarle?
“Il vaccinoè sicuro in quanto si va ad inoculare soltanto l’”involucro vuoto” del virus, non il suo DNA. Pertanto NON può infettare. In tal modo induce il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici”
Le possibili reazioni al vaccino: “ Sono quelle comuni, come una lieve alterazione della temperatura,dolori muscolari, fastidio nel sito dell’inoculazione; tutti effetti che, però, scompaiono in poco tempo”.
E’ possibile vaccinarsi anche oltre i 12 anni: “L’efficacia del vaccino è massima in chi non ha mai contratto il virus; la maggior parte degli studi che la documentano, ha preso in considerazione donne tra i 16 e i 25 anni, ma studi recenti ne evidenziano una certa utilità anche tra i 26 e i 45anni; in questa fascia è
più probabile che la donna abbia già contratto alcuni ceppi, ma lavaccinazione potrebbe
coprirne altri”.
Ogni fascia d’età presenta aspetti peculiari, da un punto di vista ormonale, che richiedono una dieta specifica.
Dieta…quante
volte abbiamo letto e sentito questa parola e quante volte è stata associata a
un regime alimentare sinonimo di privazione e talvolta persino di “fame”: tale
termine, invece, è da leggere nel suo aspetto etimologico per comprenderlo
completamente.
“Dieta” deriva dal greco “daita” e significa regime di vita che ha come suo pilastro un’alimentazione sana ed equilibrata avente come obiettivo il benessere a la salute, non dimenticando del tutto i piaceri della buona tavola.
Come già accennato all’inizio, un regime sano ed equilibrato è indicato ad ogni età, ma ci sono delle fasce o delle condizioni che ne richiedono uno ancora più specifico: è il caso dei bambini, degli adolescenti, delle donne in gravidanza, in allattamento o in menopausa, degli anziani ma anche di coloro che sono in sovrappeso o obesi o di chi è affetto da particolari patologie.
Anche
gli sportivi o chi segue un regime alimentare vegetariano o vegano ha necessità
di seguire un’alimentazione specifica.
Dei vari aspetti di una dieta, con un’ attenzione rivolta a quella per la Terza Età, ne parliamo con il Dottor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista, Professore al Master in Scienze della Nutrizione e Dietetica presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Professore al Master in Medicina Oncologica Integrata presso l’Università degli Studi di Roma “Guglielmo Marconi”, Istruttore di protocolli Mindfulness per la riduzione dello stress. Autore di libri ed esperto scientifico sulle reti nazionali, nelle trasmissioni “Uno Mattina”, “La Prova del cuoco”, “Buongiorno Benessere” su RAI 1, su “Tutta Salute” su RAI 3, Rete 4, LA7, Sky.
Il Dottor Rolando Alessio Bolognino (Foto per gentile concessione del Dottor Rolando Alessio Bolognino)
L’anziano,
fino alla metà del secolo scorso, era il nonno che, terminata la sua attività
lavorativa, era a casa, quasi del tutto privo di interessi e che si
accontentava di non aver malattie per dire di star bene.
Ma
il benessere, oggi, è fatto di tante sfaccettature e non è più, fortunatamente,
solo assenza di patologie, ma è un discorso che spazia dall’alimentazione
all’attività fisica.
Per questo parliamo con il Dottor Bolognino dello stile di vita da tenere nella Terza Età.
“Molti
anziani hanno la tendenza a
dimagrire, per disturbi legati alla masticazione o al gusto, ad esempio, o ad ingrassare, spesso per sedentarietà e assenza di
attività fisica. E’ per questo che bisogna
valutare attentamente, anche per l’anziano, i bisogni reali dell’individuo e le
necessità. Come discorso molto generale sull’alimentazione, possiamo dire
che eliminare cibi dalla dieta, a meno che non ci sia una patologia che lo richieda,
non è mai un bene”.
L’anziano che vuole vivere bene la sua età: “Deve fare pasti piccoli e frequenti: mangiare per prevenire la fame, questa è la parola d’ordine. Così come è importante bere molto prima ancora che arrivi la sete, perché a quel punto c’è persino il rischio di disidratazione”.
Con
il passare degli anni, ciascuno di noi, inevitabilmente, va incontro ad una perdita
di massa muscolare “Perdiamo ogni anno tra lo 0,1 o lo 0,4 % del muscolo, e questo fenomeno
prende il nome di sarcopenia. E’ inevitabile, ma possiamo tutelarci mangiando
bene e cercando di modificare lo stile di vita”.
A tal proposito, il Dottor Bolognino fa un distinguo tra: “Vita attiva, quindi muoversi a piedi, salire le scale, passeggiare in bicicletta” e “Attività sportiva, caratterizzata da un inizio e da una fine dell’allenamento e da un’intensità di lavoro programmata”.
Per
la Terza Età, specie le donne, molto indicate sono : “Yoga, pilates, posturale, attività
dolci che favoriscono comunque l’allungamento e la tonicità muscolare”.
Il sesso femminile deve fronteggiare, infatti, con il passare degli anni anche l’osteoporosi:“Lo stadio precedente all’osteoporosi è quello dell’osteopania, ovvero la perdita di calcio da parte delle ossa. Per rallentarne il processo, anche in questo caso, a fare la differenza è il movimento, ovvero portare il carico sull’osso stimola quest’ultimo a trattenere il calcio e rimanere elastico. Quando il calcio, invece, non viene trattenuto dalla matrice ossea questa cristallizza divenendo fragile”.
Tornado
alla dieta per la Terza Età, “Il primo alimento magico è l’acqua
oligominerale con residuo fisso (la quantità di minerali disciolti) tra i 100 e i
200 mg/l “
Attenzione
al latte, spesso non sufficiente per contrastare l’osteoporosi: “In realtà ho più successo quando tolgo il
latte dalla dieta che quando lo inserisco. Al
suo posto è da preferire lo yogurt,
più digeribile e che ci permette di assumere calcio durante gli spuntini,
quindi a metà mattina o a metà pomeriggio.”
Bene
anche i: “Formaggi magri, con una percentuale di grassi tra il 10 e il 12%, quale
la ricotta di mucca o un buon formaggio stagionato come il parmigiano,
ottimi come scelta per un secondo”.
Il cibo
non è solo una necessaria fonte di sostentamento, ma ha un potere ancora poco conosciuto:“Occupandomi di nutrizione oncologica, ho potuto constatare come
modificando la propria alimentazione, andando a preferire alcuni alimenti specifici
durante la chemioterapia escludendone alcuni, consenta al paziente di ridurre
drasticamente gli effetti negativi quali la nausea e il vomito”.
L’alimentazione è anche da considerarsi, quindi come: “Cura e prevenzione”, tanto che “Alcuni tipi di tumore, come quello del colon e del seno hanno un rapporto fino al 70% con il cibo”.
E per quanto attiene all’uso di integratori, il Dottor Bolognino così si esprime: “E’ da considerare solo se necessario. Assistiamo oggi a un fenomeno particolare: siamo una società alla ricerca del “senza”: glutine, lattosio, zucchero, grassi. Paghiamo di più per avere meno! E poi andiamo continuamente alla ricerca di integratori! L’eventuale uso di integratori è da valutare caso per caso”.
La dieta equilibrata: “Con alimenti di stagione” è il toccasana per qualsiasi fascia di età e agli anziani:“E’ consigliato assumere proteine in piccole quantità e facilmente digeribili. Quindi bene carne magra e sottile, pesce azzurro, uova purché siano di classe 0/1 (quindi allevate a terra), legumi. Ogni giorno poi consiglierei di inserire una centrifuga/estratto di verdura quali finocchio, carota, rapa, crescione, broccolo, spinacio, zenzero e un frutto, per rendere il sapore più gradevole”.
Al
termine dell’intervista ringrazio il Dottor Bolognino non solo per i suoi
preziosi consigli, ma soprattutto per la chiara incisività del suo messaggio,
forte di una competenza in campo della nutrizione, ma soprattutto di una
grande passione per il proprio lavoro.
E
grazie perché il Dottor Bolognino ci ha fatto comprendere come siano poche, ma fondamentali
le regole da seguire per stare in salute.
Perché la vita, se non afflitta da patologie, è bella, ricca, piena, a qualsiasi età.
Accompagna
ogni singolo nostro respiro, si emoziona con noi, asseconda paura e timori, ma
anche gioie e felicità.
E’
l’emblema stesso dell’essere in vita e, nel corso dei secoli, è stato osannato
da poeti, letterati, musicisti.
Rappresenta
l’amore, impariamo a disegnarlo sin da piccoli e, da quando sono comparse le
emoticon, il suo simbolo è tra i più usati.
Stiamo
parlando del cuore, di quest’organo che percepiamo, che sentiamo, e la cui
variazione di ritmo e velocità, se non dovuta a fattori esterni oggettivamente
rilevabili, ci mette in allarme.
Il campo delle aritmie e delle tachicardie è vasto e, per far chiarezza, ho intervistato uno dei maggiori esperti della cardiologia italiana: il Dottor Massimo Grimaldi, il quale, nel 2017 ha ricevuto il premio come miglior cardiologo d’Italia ai Top Doctord Awards, con la seguente motivazione: “Premio all’eccellenza come specialista di prim’ordine conferito dalla comunità medica italiana attraverso le segnalazioni ricevute durante il 2017.”
Il Dottor Massimo Grimaldi, Cardiologo (foto per gentile concessione del Dottor Massimo Grimaldi)
La
branca che studia la formazione e la conduzione degli impulsi elettrici del cuore è quella
dell’Elettrofisiologia Cardiaca. L’ Aritmologia si
occupa dei disturbi del ritmo cardiaco e proprio dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale di Artimologia il Dottor
Grimaldi è il Responsabile, presso l’Ospedale F. Mulli di Acquaviva delle
Fonti, Bari, e sempre di questa branca
è stato docente presso la Scuola di Specializzazione in Cardiologia presso l’Università
di Foggia.
Dopo
il conseguimento della Laurea con lode
in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Bari, si specializza in Cardiologia presso lo stesso ateneo, per
conseguire poi il Dottorato di Ricerca
in Fisiopatologia e Clinica dell’Apparato Cardiovascolare e Respiratorio presso
l’Università di Pisa.
Esperienze
maturate all’estero, numerose pubblicazioni a carattere scientifico, circa 6000 ablazioni transcatetere, completano
il brillante e ricco curriculum del Dottor Grimaldi, il quale, in merito alle aritmie, così si esprime:
“Il
cuore è un muscolo e ha bisogno di un impulso elettrico per attivare la contrazione. Normalmente il cuore si contrae per 60-80
battiti al minuto (b/m), nel momento in cui si registra una perdita
di ritmicità o un incremento (oltre i 100 b/m) o una diminuzione (al di sotto di 60 b/m) di
tali battiti, parliamo di aritmia,
che può essere fisiologica o patologica”.
Quante
volte, a causa di un’emozione o di uno
sforzo, avvertiamo che il nostro cuore sta battendo più velocemente; anche
la febbre o la digestione accelerano la frequenza cardiaca. Ecco :”Tutte queste situazioni generano tachicardie che si definiscono fisiologiche in quanto sono provocate
da una normale reazione del nostro organismo. Nulla di cui preoccuparsi se
il cuore arriva a registrare, limitatamente a quel contesto, anche i 180
battiti al minuto”.
Importante
è anche la modalità in cui il cuore
accelera i suoi battiti, se avviene “Gradualmente e torna alla sua velocità normale in modo
progressivo, non c’è nulla di cui allarmarsi, solitamente si tratta di
tachciardie fisiologiche. Di contro quando l’accelerazione è improvvisa, brusca
quasi sempre si tratta di tachicardie patologiche.”
L’aritmia assume fattezze che possono
destare preoccupazione, richiedendo, così,
il ricorso a uno specialista,:”L’aritmia
che deve destare allarme è quella che insorge in maniera immotivata, ovvero non a causa di un’emozione o di uno
sforzo. L’aumento, inoltre, dovrà essere
brusco e il cambio di ritmo repentino. Pertanto, quando i battiti superano,
velocemente e senza motivo, i 150-160 b/m, è il caso di approfondire, perché molto
probabilmente ci troviamo di fronte ad un’aritmia patologica”.
Le tachicardie dunque possono essere sia fisiologiche che patologiche, ma quelle patologiche sono sempre pericolose? “Possiamo dividere le tachicardie in due gruppi: quelle sopraventricolari che generalmente sono soltanto fastidiose e che provengono dagli atri, e quelle ventricolari, che invece nascono nei ventricoli, e che possono anche essere a rischio di vita. Quando le tachicardie causano una sincope, ovvero una perdita transitoria di coscienza, possono essere particolarmente pericolose ed è opportuno chiamare immediatamente il 118”. Tra le tachicardie sopraventricolari, ricordiamo la fibrillazione atriale, che è caratterizzata da un battito particolarmente irregolare. Questa aritmia non è immediatamente pericolosa per la vita, ma aumenta notevolmente il rischio di ischemie cerebrali se non opportunamente trattata.
La tachicardia:” Si può rilevare anche con un semplice elettrocardiogramma, che è un
esame fondamentale. Nei casi in cui gli episodi sono sporadici la diagnosi può
essere posta con un elettrocardiogramma di lunga durata chiamato ECG- secondo Holter. La durata del monitoraggio
solitamente è di 24 ore ma può arrivare ad oltre 3 anni: in quest’ultimo
caso, l’apparecchio è sottocutaneo e viene iniettato quasi come un micro-chip”.
Altro
evento spesso viene riferito dai pazienti è quello del: “Colpo in gola,che in realtà è un sintomo causato da un’extrasistole, ovvero una contrazione
anticipata del cuore. Queste, nonostante
il paziente le avverta come fastidiose, nella maggior parte dei casi sono benigne, tuttavia se il soggetto è affetto da
altre patologie cardiache o se avverte dolori al petto, sincopi o presincopi è
meglio che consulti un medico”.
Ringrazio
il Dottor Grimaldi per la sua grande capacità di aver illustrato, in maniera
semplice e accurata le manifestazioni più frequenti legate alle aritmie
cardiache.
Sono
state le protagoniste delle festività natalizie da poco trascorse.
Si
dice che portino fortuna e denaro, ecco perché le si mangiano appena scoccata
la mezzanotte che saluta il nuovo anno.
Ma loro, dalla forma tondeggiante e dal colore che va dal verde al marroncino passando per una screziatura arancio, sono presenti sulla tavola degli uomini sin dai tempi antichissimi, quando venivano coltivate nell’area dell’Asia minore.
Protagoniste
anche in un racconto biblico nel libro
della Genesi della Sacra Bibbia, sono state per secoli chiamate “la carne dei poveri” perché ricche di proteine e ferro.
Stiamo parlando delle lenticchie, le cui più famose sono quelle di Castelluccio di Norcia, che hanno ottenuto, nel 1997, il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta).
Coltivate in quest’area a 1500 metri sul livello del mare già nel 3000 a.C., la pratica della coltivazione segue, da tempo immemore, sempre lo stesso rituale: il terreno nel quale verranno messe a dimore viene arato in primavera, la semina avviene tra marzo e maggio e proprio da maggio fino alla prima metà luglio, si ha il momento della loro fioritura, uno spettacolo davanti al quale centinaia di migliaia di turisti rimangono affascinati.
Le lenticchie di Castelluccio di Norcia (foto di Alessandra Fiorilli)
La
sua forma schiacciata e tondeggiante, fanno della lenticchia di Castelluccio un
vero capolavoro artistico che diventa poi, anche culinario, grazie alla sua
buccia fine che, però, non si sfalda dopo i venti minuti di cottura richiesti.
E’ la natura nella quale nasce e cresce a renderla così unica: la sua dimora è un altopiano che sorge su un fondo di un lago risalente all’epoca preistorica e che si è prosciugato. L’inverno rigido, l’innevamento e le gelate che ne conseguono, rendono il terreno particolarmente favorevole alla coltivazione, preservando altresì la lenticchia dall’attacco dei parassiti e questo consente anche di non usare sostanze chimiche e di continuare una coltivazione biologica.
La forma e il colore delle lenticchie IGP (foto di Alessandra Fiorilli)
Come
piatto unico, in zuppe o accompagnata dalla pasta, come compagna di formaggi
saporiti, la lenticchia di Castelluccio di Norcia è un capolavoro tutto da
gustare.
Una
terra come quella siciliana, che ha vissuto un esodo massiccio tra gli anni ’60
e ’70 del secolo scorso, non attende altro
che i suoi figli sbarchino dagli aerei o
dal traghetto che attraversa quel lembo di mare che la separa dalla Calabria.
E
cosa è Natale se non un ritorno a casa, tra le braccia dei propri familiari,
tra gli odori di una terra mai dimenticata?
E cosa è Natale se non preparare, in onore di chi ritorna in occasione del Natale, la tradizionale Scaccia cotta ancora nel focolare domestico?
Una tipica Scaccia ragusana
Semplice ma gustosa, la Scaccia è una sorta di pizza-pane preparata con farina di semola di grano duro, lievito di birra e sale, ingredienti che, impastati insieme e fatti crescere, vengono poi lavorati nuovamente aggiungendo dell’olio extra vergine di oliva. L’impasto così ottenuto viene poi divisi in tanti panetti che vengono spianati. Poi si comincia a preparare il ripieno: la ricetta vuole che ci sia, al suo interno, la ricotta, le cipolline, l’uomo sbattuto e il formaggio. Il composto viene poi messo nella sfoglia di pasta e arrotolato sui bordi. Dopo aver passato sulla superficie un po’ d’olio, la Scaccia è pronta per essere infornata per circa mezz’ora in quel forno in pietra ancora ospitato in molti casolari di campagna.
…di nuovo la tipica Scaccia…
La storia vuole che la Scaccia arrivò, per la prima volta sulla tavole natalizia, nel 1763, quando il Principe Moncada, la volle per celebrare la Santa Festività: da allora è sinonimo di Natale, di famiglia, di ritorni.
Tra i dolci tipici siciliani del periodo natalizio, invece, spicca il famoso torrone di mandorle, noto anche con il nome di cubaita, di origine saracena, tanto che il termine arabo qubbait significa proprio mandorlato.
Il tradizionale torrone alla mandorla (foto per gentile concessione di Dora Paternò)
La ricetta più diffusa e tipica,
infatti, vuole che siano utilizzate per la preparazione solo le mandorle unite
a zucchero
e miele, anche se ci sono varianti
nell’uso della frutta secca: c’è chi preferisce preparare il torrone con i
tipici e famosi pistacchi dell’area etnea in provincia di Catania o con il
sesamo.
Tipici della zona di Ragusa, anche le praline di cioccolato con la pasta di mandorle mista a cacao. Tradizione vuole che le prime a preparare questi deliziosi dolcetti siano state le suore del Monastero di San Carlo di Erice, e sempre in un Convento, quello di Martorana, a Palermo, nacque la pasta di mandorla, usata per la preparazione di rinomati dolci.
Le praline con pasta di mandorla e cacao (foto per gentile concessione di Dora Paternò))
E anche se la Scaccia, il torrone alla mandorla, i pasticcini, possono essere preparati anche durante tutto l’anno, la magia dell’atmosfera natalizia regala loro un gusto unico e particolare, capace di arrivare sin dentro l’animo.
…e i famosi pasticcini alla pasta di mandorle (foto per gentile concessione di Dora Paternò)
La tradizione è quell’anello che unisce due sponde egualmente importanti nella vita dell’uomo: il passato e il futuro. E così, ciò che è appartenuto agli avi diventa di nuovo nostro, nel presente, ed è pronto a tuffarsi nel futuro, laddove le nuove generazioni raccoglieranno il testimone fatto di sapori, emozioni, momenti di convivialità che si vivono, si assaporano, si ricordano.
La pizza di scarola in preparazione (foto per gentile concessione di Maria Umili)
E cos’è il Natale se non la massima espressione di condivisione e di tradizioni che strizzano l’occhiolino e che ci chiamano, ci ammaliano, ci rapiscono?
La pizza di scarola appena sfornata (foto per gentile concessione di Maria Umili)
L’articolo di oggi apre una serie di storie legate alle tradizioni natalizie italiane: iniziamo con quella napoletana, fatta di un pranzo del 24 “di magro”, dove la pizza di scarola è la protagonista, pronta, poi, a passare il testimone ai dolci il cui nome fa subito Natale: struffoli, roccocò e mostaccioli.
…e gustata dai commensali (foto per gentile concessione di Rita Umili)
Ma iniziamo dalla prelibata pizza di scarola che affonda le sue radici in centinaia e centinaia di anni fa, quando le donne di Napoli, per il pranzo della Vigilia, impastavano gli ingredienti della classica pizza con friarielli (che verranno poi abbandonati) e scarola, le due verdure più diffuse sulle tavole dei napoletani. Il cenone che sarebbe arrivato in tavolo la sera richiedeva stomaci sgombri da ogni prelibatezza e così all’ora di pranzo, le famiglie erano solite mangiare la pizza di scarola arricchita da uvetta passa, pinoli, olive, capperi, e anni dopo, anche con acciughe sotto sale debitamente diliscate.
E così il classico piatto povero per eccellenza, ovvero la verdura condita accompagnata dal pane, si era trasformata in una pizza alta, soffice, umida e morbida che solo chi l’ha gustata almeno una volta ne conosce l’inconfondibile sapore.
Ma
Natale è anche e soprattutto dolci…dolci che non sono solo da gustare ma da
ammirare, quasi fossero opere d’arte le quali nascono, ancora oggi, non solo in
tutte le pasticcerie, ma anche e soprattutto nelle case dove le mamme non hanno
mai relegato in un angolo le tradizioni
della propria famiglia, ma la continuano a portare avanti, con gioia e
pienezza d’animo.
Proprio
come le sorelle Maria, Rita e Rosa le
quali, in prossimità delle feste natalizie, inondano le proprie case di odori e
sapori che non sanno solo di zucchero, miele, cioccolato ma di tradizioni, di
desiderio di voler continuare a fare ciò che la madre e le nonne erano solite
fare per loro.
Immancabile
ad arrivare sulle loro tavole, la pizza di scarola :” Che dava la possibilità alle donne, di impiegare tutto la giornata
del 24 nella preparazione del cenone”, come dichiara Maria.
Ma
l’aria si riempie di buonissimi odori molti giorni prima di Natale, con quei
dolci che:” Vengono preparati con largo
anticipo in quanto, essendo secchi e senza creme al loro interno, si conservano
senza problemi”.
E quando si parla di dolci natalizi, immancabile sulle tavole, il re: gli struffoli : “Palline di pasta con farina uova, zucchero che vengono fritte e poi, una volta raffreddate, colate di miele e decorate con confettini colorati”.
Struffoli appena fritti ( foto per gentile concessione di Rosa Umili)
La tradizione vuole che il nome struffoli derivi dal greco, ma non si esclude un legame anche con la lingua e la tradizione spagnola che ha tra i suoi dolci la pinonate, che molto ricorda i nostri struffoli.
Un trionfo di struffoli (foto per gentile concessione di Rita Umili)
Francese sembra invece essere l’origine del nome roccocò, altro famosissimo dolce natalizio campano: “Un impasto di farina, zucchero, mandorle o nocciole e pisto, ovvero un mix di spezie”.
I roccocò appena sfornati (foto per gentile concessione di Maria Umili)
Delizia per il palato e “uno tira l’altro” i mostaccioli, rombi di pasta morbida con la variante al rum e cosparsi di glassa al cioccolato.
Una tavola di mostaccioli appena colati con il cioccolato (foto per gentile concessione di Rosa Umili)
E
così, quando arriva Natale, con lui giungono da un remoto passato anche quegli
antichi gesti, sapori, odori, sapori che ci prendono ancora per mano,
accompagnandoci verso il futuro.
Tra Udine e la valle dell’Isonzo, la cui parte alta sconfina in territorio sloveno, proprio ai piedi di quei colli che ad osservarli bene ti parlano di battaglie della Grande Guerra con le sue trincee, ecco proprio lì, sopra le sponde del fiume Natisone, Cividale del Friuli ti accoglie tra le sue mura e i suoi palazzi.
Uno scorcio di Cividale del Friuli dal Ponte del Diavolo (foto di Lorenza Fiorilli)
Le sue origini affondano in epoca romana, quando Giulio Cesare, dà a questo centro geograficamente strategico, il nome di Forum Iulii, nome che verrà cambiato nel corso dei secoli a seconda della dominazione che subirà. La denominazione attuale, molto probabilmente, deriva dal nome che prenderà nel X secolo: quello di Civitas vel Castrum Foroiulianum, che verrà abbreviato dalla popolazione in Civitate, e poi, trasformato dal dialetto locale, in Sividat, Zividat, Cividat, nome, quest’ultimo, molto simile a quello attuale.
Uno dei palazzi che si affacciano sul Corso principale (foto di Lorenza Fiorilli)
Se il suo diventare centro con tanto di nome risale all’epoca romana, i primi insediamenti umani, in realtà, sembrano risalire già al Paleolitico, ma sarà la discesa dei Longobardi in Italia, nel 568 d.C. a dare un’impronta regale a Cividale, dopo che il re Alboino la sceglie come capitale del ducato longobardo in Italia. Di questo periodo, Cividale conserva lo splendido Tempietto e l’Ipogeo Celtico che svolgeva, secondo la tradizione, funzione di prigione in epoca longobarda, essendo scavato nel sottosuolo.
Particolare di un palazzo (foto di Lorenza Fiorilli)
Con il Trattato di Campoformio del 1797, Cividale passa sotto il dominio dell’Impero Asburgico e solo nel 1866, in seguito alla vittoriosa Terza Guerra di Indipendenza Italiana, viene annessa al Regno d’Italia, per la cui Bandiera combatterà lotte impervie e sarà teatro, specie con quei colli che si vedono in lontananza, di battaglie passate alla storia.
In lontananza, i monti sui quali si combatterono molte battaglie della Grande Guerra (foto di Lorenza Fiorilli)
Città di confine nel periodo della Guerra Fredda tra il blocco dell’Ovest e quello dell’Est, e dopo il terremoto del 1976 che pure l’ha colpita, anche se non in maniera pesante come le vicine Venzone e Gemona, oggi accoglie con la sua mirabile bellezza, fatta di valli, mura antiche, pace e silenzio i turisti che, immancabilmente si regalano una foto sotto il cartello del Ponte del Diavolo, che collega le due sponde del fiume Natisone sul quale sorge Cividale. La leggenda vuole che, essendo talmente impervia la costruzione dell’opera, i cittadini chiesero aiuto al Diavoloil quale, in cambio, chiese l’anima del primo che fosse transitato proprio sul ponte. Terminata l’opera, il primo a passare non fu un cittadino cividalese, ma un animale , la cui anima fu presa dal Diavolo così ingannato.
Il cartello all’inizio del Ponte del Diavolo (foto di Lorenza Fiorilli)
Affacciarsi dal Ponte del Diavolo è un’esperienza unica: il fiume Natisone che scorre lungo la valle, e sulle cui sponde si può accedere tramite una scalinata, il campanile del Duomo di Santa Maria Assunta che svetta sulle case, e i colli teatro di tante battaglie della Grande Guerra.
Il fiume Natisone (foto di Lorenza Fiorilli)
Inoltrandosi nelle vie della città, si rimane ammaliati da cotanta bellezza dei palazzi, in primis il Palazzo Comunale, un edificio gotico tutto a mattoni davanti al quale svetta la statua di Giulio Cesare, fondatore della città. Si tratta di una copia bronzea di un’opera originale in marmo custodita a Roma, nel Campidoglio.
Il Palazzo Comunale e la statua bronzea in onore di Giulio Cesare (foto di Lorenza Fiorilli)
Regalarsi una giornata a Cividale del Friuli, nella lista deiPatrimoni dell’Umanità dell’Unesco dal 2011, significa assaporare la storia di un luogo immerso in una pace e in silenzio che canta ancora, se si tende bene l’orecchio ai monti circostanti, i cori dei soldati italiani che combatterono contro lo straniero.
Il tempo che ci lasciamo alle spalle, a Firenze, non fa presagire il diluvio che incontreremo quando, superate le colline del Chianti, ci avviciniamo a San Gimignano. Piove, piove di una pioggia severa, che a stento i tergicristalli dell’auto riesce a togliere dal parabrezza. Siamo quasi tentati di invertire la rotta quando, ecco, stagliarsi, all’orizzonte, le inconfondibili sagome delle sue sue torri celebri in tutto il mondo.
E mentre saliamo verso Porta San Giovanni, la pioggia cessa di cadere copiosa e diventa sempre più lieve e la bellezza di questo scrigno toscano medievale perfettamente custodito, non solo ci fa dimenticare il diluvio che ci ha accompagnato per un buon tratto di strada, ma ci accoglie come un abbraccio.
Porta San Giovanni: uno degli access di San Gimignano (foto di Alessandra Fiorilli)
A destra e a sinistra le tipiche botteghe artigianali di ceramica, del cuoio, così come quelle dei tradizionali prodotti enogastronomici della zona, fanno da cornice alla strada, resa lucida dalla precedente pioggia.
Particolare di Porta San Giovanni (foto di Alessandra Fiorilli)
Camminiamo fino all’Arco dei Becci che ci conduce nella Piazza della Cisterna, vero cuore di San Gimignano. Originariamente destinata al mercato e ai tornei cittadini, è così chiamata perché ospitava una cisterna risalente alla fine del 1200, cisterna sulla quale sorgeva quel pozzo che ancora oggi è visibile e cornice immancabile di tante foto ricordo dei turisti che ogni anno visitano San Gimignano.
Scorcio (foto di Alessandra Fiorilli)L’Arco dei Becci che immette in Piazza della Cisterna (foto di Alessandra Fiorilli)
Lasciata alla spalle Piazza della Cisterna ad attenderci è Piazza del Duomo, sul quale si affaccia non solo il Palazzo Comunale (o del Podestà) e la Torre Grossa, ma anche la Collegiata di Santa Maria Assunta, più nota come il Duomo, la cui facciata in stile romanica non fa presagire la ricchezza degli affreschi che incantano, ammaliano, lasciano senza fiato.
Il pozzo in Piazza della Cisterna (foto di Alessandra Fiorilli)
Due i nomi che hanno lasciato le loro opere immortali nel Duomo di San Gimignano: Domenico Ghirlandaio, il quale ha affrescato la Cappella di Santa Fina e Benozzo Gozzoli, autore de “Il Martirio di San Sebastiano”.
Un particolare del Palazzo del Podestà (foto di Alessandra Fiorilli)
Uscite dal Duomo, i lampioncini sono già accesi lungo le vie del borgo toscano, e, mano a mano che la luce naturale si affievolisce, ci si trova catapultati in un presepio.
Particolare di una delle Torri di San Gimignano (foto di Alessandra Fiorilli)
La
pioggia lieve lieve accompagna la nostra visita e ogni angolo è una sorpresa,
una coccola per l’animo.
Ripercorriamo al contrario il tragitto che ci ha regalato un tuffo in un tempo fuori dall’ordinario, del già visto, e quando usciamo da Porta San Giovanni, il nostro sguardo va verso la vallata che San Gimignano domina con le sue tredici torri, il cui profilo sono diventati il simbolo di questo affascinante e ammaliante borgo medievale nel cuore della Toscana.
Dalla necessità di un popolo è nato il simbolo dello strett food napoletano: il cuoppo, o per dirla in dialetto, o’ cuopp.
I tre indiscussi protagonisti del tradizionale “cuoppo” napoletano: le pizzette Montanare, le crocchette di patate e le frittatine di maccheroni (foto per gentile concessione di Rita Umili)
Si narra, infatti, che il popolo partenopeo acquistasse dai pescatori di ritorno dall’uscita in mare, del pesce di piccole dimensioni che non avrebbe trovato spazio sul mercato ittico. Proprio questo pesce di piccolo o piccolissimo taglio, andava a finire nelle padelle delle famiglie più povere che provvedevano, per dargli più gusto, a friggerlo.
La preparazione di alimenti fritti, in primis il semplice impasto della tradizionale pizza, divenne persino un’attività lavorativa per molte donne che , fuori dalle loro case, vendevano le famose e caldissime pizze fritte, celebrate dalla grande Sofia Loren nel film “L’oro di Napoli”.
Soldi ce ne erano sempre pochi e così il piazzaiolo vendeva la pizza e segnava su un quadernino i nomi di coloro che si impegnavo e saldare il debito contratto al massimo entro otto giorni.
Ecco il motivo per il quale il famoso cuoppo napoletano è conosciuto anche con il suo secondo nome di “oggi a otto”.
Il turista che si inoltra per le vie di Napoli, non può fare a meno di notare come in ogni angolo ci siano pizzerie che vendono le pizze a portafoglio, ovvero una classica pizza napoletana di dimensioni minori e che essendo poi piegata a portafoglio, appunto, può essere mangiata anche in strada. Ma immancabili sono anche le friggitorie che offrono i famosi cuoppi, i quali possono essere di due tipi: di mare, con gamberetti, alici, calamari, e di terra, con pastecresciute, Montanare, verdure pastellate (melanzane, zucchine, cavolfiori, peperoni, carote), arancini di riso, crocchette e frittatine di maccheroni.
La frittatina di maccheroni (foto per gentile concessione di Rita Umili)
L’abito del cuoppo è la carta paglia che viene avvolta a forma di cono dal quale l’acquirente, come un abile prestigiatore, tira fuori, talvolta aiutandosi con un lungo spiedino di legno, tutte queste prelibatezze, figlie della migliore tradizione gastronomica napoletana.
Le protagoniste indiscusse del cuoppo sono soprattutto le frittatine di pasta, le pizzette fritte chiamate Montanare e le crocchette di patate, il famoso crocchè.
Le prime sono la versione monoporzione della famosa frittata di maccheroni: si presentano come dei dischetti di pasta, di solto bucatini tagliati, arricchiti con besciamella, dadini di prosciutto e pisellini. Le Montanare, invece, sono le classiche pizzette fritte che devono il loro nome ai montanari, i quali, scendendo dalle colline, arrivavano a Napoli con il questo gustosissimo cibo da asporto.
Le Montanare (foto per gentile concessione di Rita Umili)
A differenza della pizza cresciuta, che viene fritta, alle Montanare viene aggiunta, sopra, la salsa di pomodoro, il pecorino in scaglie e una foglia di basilico.
Le crocchette di patate, noti anche con il nome di panzarotti ma che a Napoli sono chiamati con il loro diminutivo “crocché”, sono invece un impasto a base di patate, uova, formaggio e pepe.
Le “crocchè” pronte per essere fritte (foto per gentile concessione di Rita Umili)
E quando anche l’ultima verdura pastellata scomparirà dal cono di carta paglia si avrà la certezza non solo di avere gustato un trionfo di sapori, ma anche di aver mangiato un pezzetto di storia partenopea.