Fibromialgia: ce ne parla il Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) Direttore Centro Tumori, Fibromialgia, Stanchezza cronica, Ossigeno Ozono Terapia e Crioterapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group.

Una definizione, quella della Fibromialgia, che da sola riesce a circoscrivere non solo il quadro clinico di chi è affetto da tale patologia invalidante, ma anche tutti gli effetti prodotti dalla FBM nella sfera psichica del paziente: Condizione cronica non infiammatoria caratterizzata da dolorabilità diffusa, rigidità o dolore muscolare o articolare, dove ad esser colpiti sono i muscoli, i tendini e non le articolazioni” come ci dice il  Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) nonché Direttore Centro Tumori, Stanchezza cronica e Ossigeno Ozono Terapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group, con sede a Pordenone.

Il Professor Umberto Tirelli (Foto per gentile concessione ddel Professor Umberto Tirelli)

Procediamo con ordine: “Oltre alla condizione cronica suddetta, altri sintomi della Fibromialgia sono la stanchezza, la spossatezza, i disturbi di concentrazione e di memoria, le parestesie, ai quali vanno ad aggiungersi quelli di tipo psichiatrico (ansia, depressione ed attacchi di panico), dispepsia, colon irritabile e, nelle donne, vaginismo e dismenorrea”.

L’American College of Rheumatology aveva, nel 1990, legato la diagnosi di Fibromialgia a due condizioni particolari: un dolore diffuso simmetrico che durava da almeno tre mesi e la dolorabilità alla digitopressione di almeno 11 dei 18 tender point, anche se  :” Di recente lo stesso American College ha scelto di eliminare la valutazione sui tender point preferendo quella dei sintomi disfunzionali che comunque non sono propri solo  del quadro della fibromialgia,  ma comuni anche ad altre sindromi disfunzionali come la quella da stanchezza cronica”.

 Il dolore diffuso, la rigidità e il dolore muscolare o articolare, protratto nel tempo:” Fa sì che il soggetto affetto da Fibromialgia riscontra una inabilità a svolgere anche le più comuni attività quotidiane e, anche laddove queste vengano compiute, il recupero delle forze può richiedere un tempo imprecisato”.

Il Tirelli Medical Group (Foto per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

 I 2/3 dei pazienti affetti da Fibromialgia, alla domanda su cosa avvertono sul proprio corpo, rispondono: Un dolore ovunque, dalla testa ai piedi. E non si tratta di un dolore qualunque, ma con specifiche caratteristiche: scottante, bruciante, vibrante, battente, martellante, profondo, tagliente, frequentemente viene riferita la sensazione di “ammaccatura”, o “corpo battuto”.

L’intensità del dolore non sempre è la stessa, infatti ci sono situazioni che lo fanno aggravare, rendendolo ancora più insopportabile: L’ansia e lo stress hanno un ruolo determinante nel peggioramento del quadro clinico, così come anche l’umidità il freddo, il sovraccarico ma anche l’inattività”.

La qualità del sonno peggiora moltissimo: “Tipico della Fibromialgia è la cosiddetta fatica al risveglio, causata da un sonno non ristoratore perché disturbato dal dolore. Dobbiamo dire che la fatica, piuttosto comune nella Fibromialgia, e che è presente nei pazienti con una percentuale che varia dal 75% al 90%, la si avverte soprattutto al mattino. Non a caso i pazienti si svegliano sentendosi già stanchi o più stanchi di quando sono andati a letto.”.

La Fibromialgia non colpisce in egual misura i due sessi “Il rapporto donne –uomini è di 8:1”.

Ancora sconosciute le cause scatenanti della fibromialgia: Potrebbe esserci lo stress, l’ansia, il sovraccarico di lavoro ma si è affacciata anche l’ipotesi di una ipersensibilità del cervello al dolore. Eppure, a tutt’oggi, la medicina non può indicare ancora una causa scatenante. Potrebbe trattarsi anche di una causa di tipo immunologico, forse legata ad un fatto infettivo che potrebbe essere scatenato persino da una situazione stressante”.

Ma come si giunge ad una diagnosi di Fibromialgia? Trascorsi 6 mesi dalla prima manifestazione di questo dolore invalidante ed entro 1 anno dall’insorgenza dello stesso, il medico, dopo aver escluso qualsiasi patologia legata ai muscoli e ai tendini, giungerà ad una diagnosi di Fibromialgia.  E’ da evidenziare come ci possa esser una sovrapposizione con la sindrome da fatica cronica (CFS), dove la spossatezza prevale sul dolore, che è invece prevalente nella Fibromialgia. E’ stato stimato che il 20/ 70% dei pazienti con Fibromialgia soddisfi anche i criteri per la CFS e viceversa, il 35%-70% dei pazienti con CFS presenti anche una FBM concomitante. Rispetto ai pazienti affetti solo da Fibromialgia, quel che soddisfacevano i criteri per entrambe le sindromi erano sottoposti ad un peggior decorso della malattia, una peggiore salute generale, un maggior numero di sintomi diversi tipici della CFS ed un maggiore impatto sulla qualità della vita. Di fronte a ciò alcuni ricercatori hanno evidenziato come queste due condizioni debbano essere considerate come differenti manifestazioni degli stessi processi biomedici e psicosociali”.

Cosa può fare il paziente di fronte ad una diagnosi di fibromialgia? “I trattamenti usati fino ad ora, ascrivibili alla sfera degli antidolorifici o degli ansiolitici o degli antidepressivi, non hanno prodotto grandi benefici. Da 2 anni, presso il nostro Centro di Pordenone, applichiamo l’Ossigeno Ozono Terapia sui pazienti affetti da Fibromialgia, con un miglioramento sul 70% dei pazienti trattati e con una pubblicazione su una rivista indicizzata. C’è da dire che l’Ossigeno Ozono Terapia è un antinfiammatorio, antidolorifico, energetico, usato anche per alleviare la fatica oncologica, perché purtroppo la chemioterapia, l’ormonoterapia, l’immunoterapia, la radioterapia, come effetti collaterali, hanno spesso anche quella di causare stanchezza”.

L’Ossigeno Ozono Terapia, con le sue proprietà antinfiammatorie ed analgesiche, prevede l’introduzione di una miscela di ossigeno e ozono nell’organismo del paziente: Per autoemotrasfusione e per insufflazione rettale, due volte a settimana per un mese e poi due volte al mese come terapia di mantenimento, secondo i protocolli della SIOOT (Società Italiana Ossigeno Ozono Terapia). Abbiamo registrato un incremento significativo della riduzione della sintomatologia nel 70% dei pazienti trattati, nessuno dei quali ha riportato effetti collaterali: questo a dimostrazione di come l’Ossigeno Ozono Terapia rappresenti un efficace trattamento per la Fibromialgia”

                                     Alessandra Fiorilli

“Tiere Motus” a Venzone: un Museo, un Sacrario della memoria, un grande esempio di come si rinasce dopo un terremoto disastroso.

Entrare nel Museo “Tiere Motus”, ospitato nel Palazzo Orgnani- Martina, a Venzone, borgo a circa 30 km da Udine, è entrare nell’animo, nei cuori, nelle menti, persino in ogni singolo battito del cuore di coloro i quali hanno vissuto il tremendo terremoto del 6 maggio 1976.

Appena se ne varca la soglia, le foto, alcune in bianco e nero, altre a colori, nonché i titoli a caratteri cubitali dei principali quotidiani nazionali, sembrano accoglierti nel loro grembo, fatto sì di dolore, ma anche di tanta dignità, e di una volontà ferrea che farà del Friuli terremotato un simbolo per tutta Italia.

Una delle sale del percorso espositivo del Museo “Tiere Motus” di Venzone (Foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documentazione Venzone), dove campeggia una significativa frase: “Il Friuli ringrazia e non dimentica”

“Tiere Motus” è un Museo, ma anche una sorta di Sacrario della memoria e quando sei lì, ad osservare l’esposizione fotografica, quasi ti verrebbe spontaneo chiedere il permesso di osservare tutte quelle immagini, perché trasudano una sofferenza unita ad una forza che permetterà al Friuli di risorgere.

A raccontarci la storia di questo Museo è la Direttrice dello stesso, la Dottoressa Floriana Marino, architetto, siciliana d’origine, veneziana per studio, avendo frequentato l’Università nel capoluogo veneto, e friulana per amore verso questo popolo che tanto le ha insegnato.

“Sono arrivata a Venzone quando ancora si stava compiendo la ricostruzione e da allora non sono andata più via. Prima di questo incarico, sono stata responsabile del gruppo di lavoro e ho partecipato alla codirezione del Centro di Documentazione sul Terremoto del 1976, dal quale poi nascerà il Museo grazie alla volontà dell’Associazione Comuni Terremotati e Sindaci della Ricostruzione del Friuli. “Tiere Motus” è un luogo  dedicato alla memoria storica, dove tutta l’esperienza del terremoto e degli anni successivi al sisma, trova qui la sua sede.”

“Tiere Motus” viene inaugurato nel 2009: Dopo anni di un lavoro molto intenso con un gruppo operativo molto qualificato con il quale abbiamo collaborato bene. E’ stato indubbiamente un grande lavoro e ha richiesto un grande sforzo, ma siamo stati molti soddisfatti del risultato”.

Un’altra Sala (foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documetazione, Venzone)

Nella mostra fotografica: “Che ha richiesto due anni e mezzo per l’allestimento”, le immagini scelte “Tra migliaia e migliaia di foto,   sono corredate da didascalie non messe in evidenza, questo perché abbiamo deciso che sarebbero state le foto a parlare, foto che esprimono, pur nella loro drammaticità, il carattere e la determinazione della gente friulana”.

Il lavoro certosino svolto: Ci ha visti impegnati nel volere raccontare gli accadimenti del ’76 e della ricostruzione, facendo attenzione a non essere autoreferenziali e sforzandoci di essere, nella narrazione, il più obiettivi possibili. Abbiamo cercato un continuo confronto e condivisione, proprio per far emergere le diverse voci”.

 E così nel museo di Venzone, il terremoto: Come evento intimo di tutti quei friulani che hanno perso case e congiunti, è diventato un luogo della memoria, depositario di ricordi individuali, che necessariamente sono diventati collettivi. Abbiamo voluto far conoscere come il Friuli e la sua gente abbia saputo voltare pagina e raccogliere la sfida della ricostruzione”.

Nonostante l’immane distruzione causata dal sisma del 1976 : Che ha interessato ben 137 comuni, 45 disastrati nella cosiddetta area cratere, con 989 vittime”, le foto esposte testimoniano il grande desiderio di tornare alla normalità : “Tra le tante, c’è una immagine che riguarda la fabbrica di arredamento Fantoni, anch’essa, come moltissime, pesantemente danneggiata dal terremoto, e che ritrae un documento, datato luglio 1976, dove si invitano gli operai ad un brindisi per il primo mobile nato dopo il sisma. Questo è uno dei tantissimi esempi della  determinazione e della grande forza d’animo di persone che, dopo aver perso tutto, si sono ritrovate a ricominciare daccapo, impegnandosi e lottando. Aggiungo, che la ricostruzione è stato un periodo intenso ma anche duro, fatto di scontri e discussioni accese.”.

 Prima la forza, dunque, poi la partecipazione collettiva al grande processo di ricostruzione che è testimoniato sempre dalle foto esposte al museo, visitato anche da molti turisti stranieri, i quali :“Possono, così, vedere da vicino e comprendere  una delle pagine di storia recente del Friuli, fatta di macerie, distruzione, dolore ma anche di impegno, ordine, compiutezza”.

“Tiere Motus” non è solo un percorso espositivo, ma si compone anche di una sala molto particolare: La sala del simulatore  è nata ancora prima del museo. Ricostruire in realtà virtuale il crollo del Duomo di Venzone la notte del 6 maggio 1976 e gli effetti sonori del terremoto  ha richiesto circa 2 anni di lavoro. Il visitatore viene catapultato, nell’istante stesso in cui cade giù il duomo di Venzone, a quella notte. Il suono assordante delle migliaia di pietre che vengono giù, delle vetrate della chiesa che vanno in frantumi,   ha un grande impatto sui visitatori. Ma l’effetto sonoro più rilevante è dato dal terrificante boato che nasce dal cuore della terra, l’ “Orcolat” per i friulani, il terribile mostro. La sala di proiezione è dotata di un impianto di diffusione in grado di generare frequenze infrasoniche che fanno rivivere la spaventosa voce del terremoto. Una curiosità: la prima volta che lo mettemmo in funzione, tutti uscirono fuori spaventati, ecco perché il volume è tenuto  al minimo per non creare panico tra la gente di Venzone”.

La Sala Simulatore (foto per gentile concessione di “Tere Motus”, Centro di Documentazione, Venzone)

Ringrazio la Dottoressa Floriana Marino non solo per la disponibilità, ma anche per la grande capacità di raccontare un dolore così grande: “Non dimentichiamo che  quasi tutte le famiglie dei comuni disastrati hanno pianto la perdita di un proprio congiuntocon garbo, sensibilità per far capire come “Dietro la lucidità del disastro ci sia stata una forza così grande”.

Alessandra Fiorilli

 

 

La raffinata eleganza di un vassoio di pasticcini alla pasta di mandorle

Un vassoio di pasticcini preparati con pasta di mandorle e tutto assume un altro sapore.

Sarà per l’impasto leggermente e tipicamente umido delle che li contraddistingue, sarà per la languida morbidezza che avvolge il palato, sarà per l’inconfondibile profumo che inebria l’olfatto, comunque, gustare un pasticcino con “pasta reale” è davvero una dolce coccola.

La pasta di mandorle, indiscussa protagonista dei dolci siciliani, è infatti nota anche con il nome di pasta reale, derivante, con molta probabilità, dal fatto che una volta nato il primo dolce da questo impasto, chi lo avesse preparato, abbia esclamato: “E’ un dolce da re”.

Un vassoio di pasticcini con pasta di mandorle (foto di Alessandra Fiorilli)

La tradizione vuole che i primi a impastare le mandorle con lo zucchero siano stati gli arabi al tempo della loro dominazione sull’isola, ma sembra molto più probabile che a dar vita, per la prima volta, ad un dolce con “pasta reale”, siano state, nel 1100 circa, le suore del Convento di Martorana, a Palermo, nei pressi della Chiesa di Maria dell’Ammiraglio. Questo impasto, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, ha meritato il titolo di “Prodotto Agroalimentare Tradizionale siciliano”.

Tra i dolci più noti spicca la famosa “Frutta Martorana”, così chiamata proprio in onore al nome del convento che per primo regalò questo impasto. Altra specialità è l’agnello pasquale con pasta di mandorle e pistacchi di Bronte.

Ideali per accompagnare un thè, eleganti insieme al caffè, talmente raffinati da portarli portare in dono alla padrona di casa che ci ha invitato a pranzo o a cena, morbidi, profumati, deliziosamente unici: i pasticcini alla pasta di mandorle sono parte di quel  patrimonio dolciario italiano apprezzato in tutto il mondo.

Alessandra Fiorilli

La storia del supplì romano che ha conquistato anche l’ipertecnologica Tokio

E’ il 1874 quando i clienti di una delle tante trattorie di Roma leggono, per la prima volta, nella lista dei piatti proposti, “Souplis di riso”.

Incuriositi dal nome, che tradisce una qualche vaga parentela con la lingua francese, non a caso sembra derivare dal termine d’Oltralpe “surprise”, ovvero, sorpresa, ne ordinano uno… eccolo arrivare: è caldo, profuma di fritto, ha un volto rassicurante e al tempo stesso malizioso.

La sorpresa la si ha quando lo aprono, con le mani, a metà : al suo interno custodisce un cuore di mozzarella filante capace di legare le due parti di questo alimento preparato con il riso.

Il supplì…semplicemente (foto di Alessandra Fiorilli)

Dalla trattoria romana il balzo che la ricetta farà in tutte le case, prima dei romani poi di tutta Italia, sarà tanto breve quanto duraturo.

Le mamme lo preparano con gli avanzi del riso e del sugo di carne della domenica, ma nessuno considererà mai il supplì come un modo per riciclare ciò che è rimasto nelle pentole del pranzo di un giorno di festa.

Due le correnti di pensiero sulla pianatura: chi lo infarina, lo passa nell’uovo e poi nel pangrattato, chi invece usa solo l’uovo e pangrattato.

Il classico colore della panatura appena fritta (foto di Alessandra Fiorilli)

Il classico supplì fronteggia oggi la concorrenza di alcune varianti: c’è chi aggiunge al suo interno delle verdure, chi della pancetta, ma l’intramontabile supplì che ha incantato prima i romani e poi l’Italia e il mondo intero, è sempre il classico, con riso al sugo e mozzarella.

IL cuore di mozzarella custodito all’interno di ogni supplì che si rispetti (foto di Alessandra Fiorilli)

Il supplì riesce a superare il suo essere solo un alimento perché sa diventare poesia, il simbolo di una parentesi gustosa e sfiziosa tra il pranzo e la cena, il compagno di un’attesa, un momento di puro gusto.

Ma è anche l’indiscusso protagonista di una serata in pizzeria tra amici: mentre si attende l’arrivo della pizza, se ne gusta qualcuno caldo caldo.

E se ti trovi in strada e noti da lontano una buona friggitoria e passi lì di fronte, è quasi impossibile resistere alla tentazione di entrare e di acquistarne uno e quando sei lì e lo porti alla bocca, all’improvviso non ti sei senti più solo, perché in quel momento il supplì già ti fa compagnia…e dimentichi le calorie che stai ingerendo, le dieta, l’autobus che devi prendere per tornare a casa: esiste solo lui  e nello stesso istante in cui lo addenti, non puoi fare a meno di chiudere gli occhi.

Lui, il supplì, non concede strappi alla regola: vuole essere mangiato con le mani…è così, infatti,  che lo gustano da un capo all’altro del mondo. Locali  che vendono supplì li troviamo dalle grandi metropoli nordamericane, New York in testa, fino all’ipertecnologica Tokio.

Il supplì: un pezzo di storia romana amata in tutto il mondo (foto di Alessandra Fiorilli)

Anche la filmografia italiana lo ha celebrato in alcuni suoi  film: da “La Parmigiana” con un Nino Manfredi che li addenta con voracità, al più  recente “Poveri ma ricchissimi”, in cui la famiglia protagonista dei Tucci riesce a mangiarne interi vassoi senza stancarsi mai.

E provateci anche voi…sì provateci ad acquistarne uno e a portarlo a casa senza aver avuto la tentazione, nemmeno per un istante, di addentarlo per strada…

Alessandra Fiorilli

 

Firenze: una passeggiata lungo la storia

Firenze…Firenze…Firenze… parte dell’immancabile e classica triade, insieme a Roma e Venezia, che i turisti stranieri non si lasciano sfuggire quando visitano l’Italia, meta di gite scolastiche organizzate per ammirare da vicino i capolavori dei grandi artisti rinascimentali, luogo dove i cinque sensi vengono rapiti da cotanta maestosa bellezza e perfezione.

Quando arrivi a Piazza Duomo, non puoi trattenerti dal rimanere immobile, ammaliato dalla grandiosità della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, del Campanile di Giotto e del Battistero.

Il Duomo, uno scorcio del Campanile e il Battistero (da sinistra nella foto di Lorenza Fiorilli)

E tu sai che per costruire quella cupola, simbolo di Firenze e che domina l’intera città, Filippo Brunelleschi impiegò 16 anni, usando una tecnica costruttiva che oggi, a quasi 7 secoli di distanza, e con tutti i mezzi e le innovazioni di cui si dispone, sembrerebbe un’opera impossibile.

Il capolavoro di Filippo Brunelleschi: la cupola, simbolo di Firenze (foto di Lorenza Fiorilli)

Quel trionfo di marmi bianchi di Carrara, verdi di Pisa e rossi di siena,  che ricoprono l’intera facciata sia della Cattedrale che del Campanile, regalano un’atmosfera, al tempo stesso, dolce ed austera, imponente e magica.

Il Duomo che accoglie i turisti con la sua maestosa bellezza (foto di Lorenza Fiorilli)

Gioco di luci tra il Battistero, il Duomo e il Campanile (da sinistra nella foto di Lorenza Fiorilli)

Nell’istante in cui riesci, seppur a fatica, a staccare lo sguardo da tanta magnificenza nata dall’estro e dalla capacità sovraumane di artisti immortali, ti incammini verso Piazza della Signoria e lì la storia ti viene incontro, ti prende sotto braccio, ti parla dei grandi eventi vissuti dalla città di Firenze e che hanno avuto proprio in questa piazza il loro centro nevralgico.

Palazzo Vecchio in Piazza della Signoria (foto di Lorenza Fiorilli)

Guarda…sembra quasi di vedere il rogo che, proprio in Piazza della Signoria,  Girolamo Savonarola impose, nel 1497, ai libri e dipinti non graditi alla  sua ortodossia, rogo sul quale lui stesso brucerà, l’anno successivo e che sancirà la fine del suo governo.

Pochi decine di metri oltre, ecco gli Uffizi, che possono essere considerati un doppio capolavoro: capolavoro come edificio e capolavoro per le opere ivi ospitate.

Lasciati gli Uffizi alle spalle ci si incammina di nuovo e si sa che lui è lì ad attenderci: lui , il ponte più antico di Firenze, lui, che è stato risparmiato dalla furia distruttrice dei nazisti e che si è salvato dalla piena disastrosa dell’Arno nel   novembre 1966.

Ecco, dunque, Ponte Vecchio le cui botteghe degli orafi che costeggiano le due ali del ponte, sono sormontate dal corridoio vasariano progettato appunto da Giorgio Vasari per consentire il passaggio da Palazzo Vecchio, in Piazza della Signoria, centro nevralgico politico-amministrativo della città, a Palazzo Pitti, dimora della famiglia dei Medici.

Particolare di Ponte Vecchio (foto di Lorenza Fiorilli)

Su Ponte vecchio le botteghe degli orafi presero il posto, dietro ordine di Ferdinando I dei Medici, delle macellerie che furono spostate altrove, in quanto il lezzo che da queste si diffondeva, era ritenuto poco consono alle attività politico-amministrative che si svolgevano nei dintorni.

Firenze da Piazzale Michelangelo (foto di Lorenza Fiorilli)

Non puoi andare via da Firenze senza aver visitato  Palazzo Pitti e il suo Giradino dei Boboli,  anche se  un degno saluto alla città lo puoi fare solo dall’alto, solo da Piazzale Michelangelo e lì…lì ti commuovi, ti commuovi per tanta bellezza, e ti immagini che per quelle stesse vie e piazze dove hai camminato, sono nati, vissuti, e hanno patito le alterne vicende politiche della città, grandi artisti come Benvenuto Cellini, Filippo Brunelleschi, Cimabue, Sandro Botticelli, Dante, Guido Cavalcanti.

Arrivederci Firenze… e grazie per questo tuffo nella storia italiana che ci hai regalato.

Alessandra Fiorilli

 

“Gusti di Frontiera”: a Gorizia, dal 26 al 29 settembre, 413 espositori da tutto il mondo per gustare cibo e tradizioni dei Cinque Continenti.

 

Anche quest’anno Gorizia, nell’ultimo fine settimana di settembre, grazie a “Gusti di Frontiera”, si trasformerà in una vetrina internazionale, dove il cibo e le tradizioni gastronomiche di tutto il mondo accoglieranno i visitatori di una manifestazione che sta crescendo di anno in anno. Non una semplice “fiera”, ma un vero e proprio grande evento di respiro internazionale che taglia il traguardo, proprio quest’anno, della sua 16° edizione.

Uno scorcio del caratteristico borgo medievale di Gorizia e, sulla sinistra, il Castello su cui sventola la bandiera italiana(Foto di Lorenza Fiorilli)

413 gli stands che quest’anno attenderanno i visitatori da giovedì 26 settembre a domenica 29. Una festa di colori, un tripudio di odori, sapori, un’ occasione imperdibile per gustare specialità gastronomiche e per passare, senza aerei né  e treni, da una  nazione all’altra.

Uno stand dell’Europa Orientale, con le tipiche focacce lievitate cotte su piastra (foto di Lorenza Fiorilli)

La manifestazione “Gusti di Frontiera”,  nata 15 anni fa,  è maturata nella consapevolezza che, dopo la caduta della cortina di ferro,  Gorizia non era più solo l’estremo avamposto del blocco dell’Ovest contro quello dell’Est, ma una città nuova, come ci conferma Arianna Bellan, Assessore dei Grandi Eventi, Lavoro e Urbanistica del capoluogo friulano: “Da un punto di vista geografico, Gorizia è ancora una città di confine, ma se per decenni questo ha rappresentato un momento di divisione, oggi si sta cercando di trasformarlo in un’occasione di crescita e di modello di cooperazione europea. Anche una manifestazione come questa, che mette al centro le cucine di tutto il mondo, valorizzando contestualmente quella locale, va in questa direzione”.  

Uno scorcio del Borgo dedicato ai Paesi anglosassoni: in foto uno storico bus rosso inglese (foto di Lorenza Fiorilli)

Nei primi anni “Gusti di Frontiera”, una kermesse il cui motto è “Il Mondo in Tavola”, riuniva nelle vie centrali soltanto: “Espositori provenienti dall’ Italia, dalla Slovenia, dall’ Austria, dall’Ungheria. Poi l’interesse è cresciuto moltissimo e sono pervenute richieste anche da altri Paesi, ciascuno dei quali ha portato a Gorizia proprie specialità gastronomiche che fanno parte integrante della cultura delle singoli nazioni”.

Il Borgo dell’America Latina e il tipico cibo messicano (foto di Lorenza Fiorilli)

Il 2018 è stato un anno importante, una pietra miliare per “Gusti di Frontiera”, in quanto davvero erano presenti, con i propri stands, tutti i Cinque Continenti . Ogni anno, quest’evento così importante per Gorizia, regala ai suoi visitatori una novità, come ci svela l’Assessore Bellan: “Nel  2018 è stata l’Australia, quest’anno sarà l’Africa”.

Lo stand dove gustare l’originale yogurt greco (foto di Lorenza Fiorilli)

L’interesse crescente verso questa manifestazione di respiro internazionale, non si è avuta solo tra “gli addetti ai lavori”, ma anche e soprattutto tra i visitatori che, di anno in anno, affollano sempre più numerosi le vie centrali e le piazze di Gorizia, come ci conferma, numeri alla mano, l’Assessore Bellan:” Lo scorso anno si stima ci siano stati 800000 partecipanti da giovedì, giorno di apertura degli stand, sino alla domenica. Una crescita importante, considerando che, ad esempio, nel 2012 sono accorse a Gorizia 200000 persone”.

Un evento come  “Gusti di Frontiera”, significa non solo una scrupolosa analisi preventiva degli spazi da assegnare alle centinaia e centinaia di espositori, ma anche una valutazione successiva, quando gli stand vengono smontati: “ I sopralluoghi iniziano dal mattino successivo, insieme a tutti gli addetti e al personale coinvolto nella manifestazione. Sono del parere che si lavora meglio quando lo si fa a mente fresca”, dice l’Assessore Bellan.

Un pò di Olanda… (foto di Lorenza Fiorilli)

Un grande sforzo organizzativo che inizia già dal mese di gennaio: “E’ proprio dalle prime settimane del nuovo anno che si comincia a pensare all’edizione successiva”.

Accurata e scrupolosa l’organizzazione della sicurezza: “Che coinvolge non solo le Forze dell’Ordine, ma anche l’Associazione Carabinieri in congedo, la Protezione Civile. Vogliamo offrire la massima serenità alle centinaia di migliaia di persone che accorrono in città nei quattro giorni di Gusti di Frontiera”.

Focacce dell’Europa Orientale da riempire con i tipici grandi hamburger e salse tipiche (foto di Lorenza Fiorilli)

E così Gorizia, durante questa manifestazione, diventa davvero la capitale mondiale del gusto, non solo perché ci sono stands dai cinque continenti, ma  perché arrivano :” Corriere su corriere da tutta Italia e moltissimi da ogni angolo della terra, grazie alla possibilità di raggiungere Gorizia da Trieste, dove c’è l’Aeroporto Ronchi dei Legionari”. Chi preferisce il treno, invece, ci sono collegamenti con i treni Alta Velocità  che raggiungono le vicine città di Udine e Trieste.

il Kurtoskalacs, tipico dolce ungherese dalla tipica forma a cono, cotto su uno spiedo cilindrico  che viene fatto girare sul fuoco. (Foto di Lorenza Fiorilli)

La città di Gorizia, dominata dall’alto dal suo bellissimo castello, (la cui visita, così come quella ai Musei della città, è gratuita durante Gusti di Frontiera) in occasione del grande evento internazionale, è divisa in tanti “Borghi”, ciascuno dei quali ospita gli stands relativi ai Paesi: avremo così il Borgo Francia “Con tante luci sugli alberi”, il Borgo dei Paesi  latini, con la loro paella e la sangria, il Borgo Orientale fino a coprire, così, l’intero globo terrestre.

Non mancherà, anche quest’anno, durante i quattro giorni dell’evento, il “Salotto del Gusto”, con ospiti e talk show sulle mille sfaccettature del cibo.

Alessandra Fiorilli

 

 

Come prevenire e fronteggiare il diabete: ce ne parla il Professor Riccardo Vigneri, uno dei massimi esperti del campo e Professore Emerito di Endocrinologia all’Università di Catania

Siamo pronti a fronteggiare la pandemia- diabete? E’ una domanda che dovremmo porci tutti perché, nonostante quello di tipo 2 si stia diffondendo in maniera preoccupante tra la popolazione italiana, mezzi per evitare il rischio di ammalarsi ce ne sono e ne parliamo con uno dei massimi esperti del campo: il Professor Riccardo Vigneri, Endocrinologo e Diabetologo, attualmente Professore Emerito di Endocrinologia dell’Università di Catania.

Il Professor Riccardo Vigneri (foto per gentile concessione del Professor Riccardo Vigneri)

Distinguiamo innanzitutto i due tipi principali di diabete: il tipo 1, che è quello più grave, perché trattasi di una malattia autoimmune che distrugge le cellule del pancreas e che riguarda solo il 10% dei pazienti, e quello di tipo 2, che riguarda la maggioranza dei casi. Il tipo 1 è insulino-dipendente, il tipo 2 è insulino-resistente: non manca l’insulina ma i tessuti sono “resistenti” cioè non ne sentono gli effetti. Per il diabete mellito tipo 1, poco possiamo fare perché c’è alla base anche una predisposizione genetica: anche diagnosticando col dosaggio degli anticorpi la fase di predisposizione l’intervento è poco o nulla efficace. Invece, per quello di tipo 2 molto dipende dallo stile di vita del paziente e quindi è possibile intervenire per evitarlo o ritardarlo.

Stile di vita che, purtroppo, negli ultimi anni , è cambiato molto: Mangiamo di più e male e ci muoviamo di meno. Quindi, se potessimo tornare alla dieta mediterranea e  fare i tanto decantati 10000 passi al giorno, che corrispondono a circa 40 minuti di camminata  a passo sostenuto per 5 giorni la settimana, potremmo dire che già stiamo facendo molto ed evitare molti casi di dibaete tipo 2”.

L’obesità, legata allo scorretto stile di vita, è una causa principale del disordine metabolico che può portare all’aumento della quantità di zucchero nel sangue:  Le cellule grasse predispongono all’insulinoresistenza. Ma anche sull’obesità c’è da fare un distinguo: esiste quella androide, tipica del sesso maschile che interessa il tronco e l’addome con forma “a mela”, che è caratterizzata dal grasso viscerale il quale favorisce l’insorgere della sindrome metabolica, e del diabete e l’obesità  ginoide, tipica del sesso femminile che interessa l’area gluteo-femorale con forma “a pera” caratterizzata dall’aumento del grasso sottocutaneo e che è meno dannosa. Infatti solo il grasso viscerale produce sostanze che riducono l’attività dell’insulina, e che ne impediscono l’azione sugli zuccheri ma anche sul metabolismo dei grassi come il colesterolo e i trigliceridi”.

C’è da evidenziare un aspetto molto importante: Il diabete non è una malattia, ma una sindrome con tante forme diverse e diverse fasi. Una fase importante è quando compaiono le complicanze croniche: quando tutti gli organi sono esposti ad una glicemia alta ed all’alterato livello di grassi, le pareti dei vasi si ispessiscono e si irrigidiscono e si hanno le gravi complicanze di difficoltà circolatorie a livello sia micro- che macro-vascolare, con  conseguente insorgenza di patologie gravi come l’infarto e l’ictus cerebrale e, per i piccoli vasi, del rene (il diabete è la prima causa di insufficienza renale) e retina  e il piede diabetico. Nella retina dell’occhio dei diabetici le migliaia di vasi che la irrorano si possono rompere, provocando emorragie, micro-cicatrici e quindi cecità: non a caso il diabete ne è la prima causa nell’adulto. Un’altra complicanza importante è quella del “piede diabetico”. L’insufficienza vascolare degli arti inferiore fa sì che una piccola ferita non si rimargina, si infetta, si ha l’ulcera diabetica che può attaccare l’osso e si può arrivare all’amputazione del piede o anche  dell’arto”

Negli ultimi 10-15 anni sono stati, inoltre,  effettuati degli  studi sulla stretta correlazione tra diabete e cancro: “ Nei diabetici  è aumentato il numero dei tumori per molti motivi, ancora non tutti chiari. Alcuni sono motivi locali, legati all’organo. Per esempio i diabetici hanno più frequentemente  epatiti virali e fegato grasso e ciò aumenta la predisposizione  al tumore al fegato due volte di più rispetto ai non diabetici. Molti altri tumori sono aumentati nel diabete: in generale vi è un aumento del 20-25% del rischio di tumore. Solo un tumore, quello alla prostata, è diminuito nel diabete, probabilmente perché nei diabetici sono spesso ridotti i livelli di testosterone”.  

C’è inoltre un meccanismo che spiega il nesso tumore-diabete: “Le cellule tumorali si sviluppano più rapidamente di quelle normali,  crescono  in maniera sregolata,  ma per crescere hanno bisogno di energia anche sotto forma di zucchero, la cui quantità è ovviamente, più elevata nei diabetici. Così pure alla crescita dei tumori contribuiscono l’insulino-resistenza e la terapia insulinica perché l’insulina è anche un fattore di crescita”

Quali, dunque, i mezzi per prevenire tale sindrome, oltre, ovviamente ad uno stile di vita più salutare? “Gli zuccheri semplici sono da diminuire drasticamente, (qualsiasi tipo, anche quello di canna). E questo vale anche per la frutta che contiene fruttosio. Non bisogna esagerare: la regola è mangiarne 3/4 porzioni equivalenti come volume ad un pugno chiuso evitando quella più zuccherina come fichi ed uva. La farina bianca (e quindi pane bianco e dolci) è da evitare perché produce un picco di assorbimento rapido, facendo aumentare, di colpo, l’insulina. Bene invece la pasta e il pane integrale e ottima la frutta secca: 4/5 noci e 6/7 mandorle al giorno vanno benissimo perché contengono grassi vegetali che aiutano a pulire i vasi, ma bisogna attenersi alle quantità indicate perché la frutta secca è molto calorica”.

Occhio anche allo  stress: “ Fa aumentare ormoni che antagonizzano l’ insulina come cortisolo ed adrenalina: quindi una vita stressata può essere deleteria per chi è predisposto al diabete”.

Ringrazio il Professor Riccardo Vigneri  per il tempo che mi ha dedicato e per il su stile asciutto e facilmente comprensibile.

Alessandra Fiorilli

Rispetto,per favore…

Questa volta parlerò del rispetto, sempre meno conosciuto e praticato dagli esseri umani.

Il vocabolario cita, sotto questa voce: “Sentimento di attenzione nei confronti degli altri, della loro dignità e dei loro diritti, che dispone ad astenersi da atti offensivi o lesivi”.

Il perché mi è venuto in mente di parlare di questo argomento ve lo spiego subito:

l’altra mattina sono scesa in spiaggia portando con me anche un pacchetto di cracker, nel caso mi venisse un “languorino” prima di pranzo; c’erano pochissime persone ma diversi gabbiani che cercavano tra la sabbia dei residui di cibo lasciato dai bagnanti o un pezzetto di pizza caduta dalle mani di un bambino. Allora ho preso i miei cracker, li ho spezzati con le mani e li ho dati a loro, che certamente avevano più fame di me.

Gabbiani in spiaggia (Foto di Lorenza Fiorilli)

E mentre mangiavano voracemente, un bambino, correndo, li ha spaventati e li ha fatti volare via; io gli ho fatto notare che se fosse rimasto lì, loro non sarebbero tornati, ma non mi ha ascoltato; certo, era solo un bambino, ma neanche il padre, presente alla scena ha proferito parola.

L’altro pomeriggio, sempre in spiaggia, due bambine hanno detto l’una all’altra : ”Tiriamo la sabbia ai gabbiani così vanno via!”, senza che quei volatili stessero dando fastidio a nessuno.

I placidi gabbiani (foto di Lorenza Fiorilli)

Ecco, queste due scene mi hanno dato molto fastidio per la mancanza di rispetto verso degli esseri viventi che non stavano disturbando nessuno. Il rispetto si deve imparare da bambini, ma se nessuno glielo insegna, non è una cosa così facile.. Il rispetto verso chi è diverso da noi, verso chi ha preferenze e gusti che non sono i nostri, verso chi è di un’altra cultura, il rispetto, semplicemente, verso un altro essere vivente distinto da noi.

Un primo piano di un dolce gabbiano (Foto di Lorenza Fiorilli)

Se non si attua ciò, ci sarà sempre qualcuno che si crederà superiore e si sentirà in diritto di mettere in atto soprusi verso gli altri.

Stavolta il mio articolo sarà più breve perché, al mio posto lascio parlare una metafora, che ho letto per la prima volta in uno dei libri sul quale preparai il mio ultimo esame universitario e che tratta dell’importanza del rispetto verso le differenze di ognuno e della capacità di potersi arricchire proprio di queste differenze. No, non è una favola per bambini, anche se, quando comincerete a leggerla, vi sembrerà così; vi invito a non fermarvi alle prime righe.

Buona lettura.

Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa

L’aquila e il gabbiano

 C’era una volta un’aquila che viveva in una grande isola e amava volare sulle alte cime dei monti. Amava volare con le proprie ali seguendo e facendo sua la forza del vento.

Un giorno l’aquila vede un bellissimo gabbiano che si era allontanato dal porto e si era spinto quasi a raggiungere le alte vette. I due subito si innamorano a da allora amano trascorrere tanto tempo volando insieme. Il gabbiano mostra all’aquila la bellezza dei porti con le sue navi e i suoi anfratti, e l’aquila gli fa provare l’ebbrezza del volare in lato sino a raggiungere le più alte cime dei monti dell’isola. All’inizio tutto è bellissimo e ognuno scopre il fascino del mondo dell’altro.

Dopo un po’ di tempo però, l’aquila si accorge che il gabbiano tende a voler trascorrere sempre più tempo vicino al suo porto e al suo mare e meno ad avventurarsi per le alte montagne. Ogni volta che l’aquila gli fa la proposta di andare a volare nell’alto dei cieli il gabbiano trova una scusa. L’aquila per qualche tempo rinuncia ai suoi voli, ma dopo un po’ sente che le sue ali hanno voglia di sgranchirsi e va a fare un giro da sola. Ma quando torna il gabbiano fa il broncio, è offeso. E dice all’aquila che il fatto che voglia volare così in alto vuol dire che non gli vuole più bene. L’aquila cerca di fargli capire che non è così, che lo ama profondamente. La natura le ha dato grandi ali per volare in alto e lei non fa altro che seguire la sua natura, così come il gabbiano segue la sua. Il gabbiano non si fa convincere dal discorso dell’aquila e pensa che se il problema sta nelle grandi ali dell’aquila, la soluzione sta nel tarpargliele. E così, di notte, mentre l’aquila dorme tranquillamente al suo fianco il gabbiano prende delle forbici e, notte dopo notte, spunta un po’ le ali dell’aquila, senza che questa se ne accorga.

Un giorno, mentre sta cercando di volare verso la sua montagna preferita, l’aquila sente di non farcela, si sente stanca, sente il suo corpo pesante e nonostante i suoi sforzi, non ce la fa a salire in cima. Sta per desistere quando incontra una maestosa vecchia aquila che vola lentamente con le sue grandi ali spiegate. La vecchia aquila vede quest’aquila che fa fatica a volare e nota subito le ali tarpate a forma di gabbiano: capisce che qualcuno deve averle giocato un brutto scherzo. La vecchia aquila le si avvicina e le chiede se vuole fare un giro sulle sue ali, visto che sembra così stanca. L’aquila ringrazia e accetta. Allora l’aquila saggia la prende su di sé e volando la porta in cima al monte. Quando arriva in cima al monte l’aquila si sente rinascere. Ma dopo un po’ diventa triste al pensiero che il suo amato gabbiano le farà il broncio quando tornerà. L’aquila saggia vede il cambiamento di umore e le chiede cosa stia pensando. L’aquila si confida e le racconta che il suo amato gabbiano preferisce stare vicino al porto dove sono ancorate tante navi e non vuole volare in alto, sfidare la forza del vento e misurare la potenza delle sue ali.

Dopo aver ascoltato, la vecchia aquila saggia le dice che anche i gabbiani possono volare in alto. A una condizione, però, che lo vogliano veramente e che non si facciano prendere dal caldo torpore marino e non si facciano sedurre da tutte quelle navi ancorate ai porti. E comincia a raccontare le avventure di un gabbiano che aveva conosciuto tempo prima, un gabbiano chiamato Jonathan Livingston che amava sfidare la sua natura e che era riuscito a raggiungere cime e vette altissime.

L’aquila sta alcuni giorni in compagnia della vecchia aquila saggia ascoltando i racconti sul gabbiano Jonathan Livingston, così capisce che anche il suo gabbiano può volare in alto: deve però essere lui a volerlo.

E stando lì sue ali ricrescono e si rinforzano.

Un giorno si accorge di essere nuovamente in forza e si sente pronta per ritornare dal suo gabbiano. Ringrazia, saluta la vecchia aquila saggia e va. Appena arriva dal gabbiano lo abbraccia felice e gli racconta del suo incontro con la vecchia aquila saggia e le storie sul gabbiano Jonathan Livingston che ha sentito. Ma il gabbiano non ha voglia di ascoltarla. E’ offeso e convinto che ormai l’aquila non lo ami più.

Allora l’aquila con calma gli dice di ascoltarla molto bene perché ha una cosa importante da dirgli. E così gli dice: “Ogni creatura umana ha delle differenze e ognuno può amare, apprezzare e rispettare le differenze di ciascuno. La mia natura mi ha dotato di grandi ali scure con le quali volare nell’alto nei cieli. La tua natura ti ha dotato di bellissime ali bianche con le quali sorvolare mari e monti. Entrambi abbiamo le ali, entrambi possiamo volare in alto e possiamo volare da soli o in compagnia. A me piace volare con te ma non posso più trascorrere tutto il mio tempo a stare nel porto ad apprezzare le navi ancorate. Ho bisogno di volare in alto come mi spingono le mie ali. Mi piacerebbe volare con te, averti al mio fianco, però posso anche capire che tu preferisca crogiolarti al caldo del sole. Ognuno ha una sua natura da riconoscere, rispettare e onorare. E ognuno ha anche la libertà e la volontà di impegnarsi in una sfida per superare la presunta limitatezza delle proprie ali”.

Questo discorso così chiaro colpisce il gabbiano e lo commuove. Sente che l’aquila ha ragione e allora le dice: “Raccontami ancora le avventure del gabbiano Jonathan Livingston in modo che io possa imparare a volare più in alto”.

(brano tratto dal libro “I porcospini di Schopenhauer” di Consuelo Casula, Franco Angeli Editore)

 

Il fascino discreto di Udine, perfettamente immersa tra  tradizioni friulane e architetture venete

Udine è il suo castello, che sorge su un colle dal quale si vedono i tetti della città e, in lontananza, le Alpi.

Udine  è Piazza Libertà, che sembra abbracciarti con la Loggia del Lionello, di spiccato gusto veneto.

Udine è la sua gente, dal cuore gentile.

Udine è anche “frico”, il piatto tradizionale friulano a base di patate e formaggio, accompagnato spesso da un’ottima polenta.

Udine è lo stupore che ti fa suo, quando cammini per le vie centrali e ti fermi ad ammirarne i palazzi.

Udine è sorpresa.

Udine è la città che non ti aspetti, perché se capiti in Friuli Venezia Giulia, la prima cosa che pensi di andare a visitare è la pure straordinaria e mitteleuropea Trieste, con le sue piazze e il Castello Miramare.

Invece Udine è lì, non ti dice “Vienimi a trovare” perché è pudica ed orgogliosa allo stesso tempo, eppure se la vai a visitare lei ti prende subito e la ricorderai per sempre.

Piazza Libertà ne è il cuore, non solo sotto il profilo toponomastico, ma anche per le ricchezze che lì si affacciano, primo tra tutte l’Arco Bollani, sul quale spicca il Leone di San Marco. Il legame che Udine ha con il confinante Veneto è molto forte da un punto di vista architettonico, non è un caso che lo stesso Arco sia frutto del grande estro creativo di Andrea Palladio, il quale ha realizzato le famose ville attorno  Vicenza.

L’Arco Bollani, dal quale si accede alla salita verso il Castello (Foto di Lorenza Fiorilli)

Superato l’Arco Bollani ci si incammina per la salita che, costeggiata dalla loggia del Lippomano,  conduce al Castello, posto sul punto più alto della città. Ma prima di arrivare allo spiazzale e di passare sotto un altro arco, l’Arco Grimani, si può ammirare la chiesa di Santa Maria di Castello, la più antica di Udine,  e il suo campanile alto 43 metri,  sul quale spicca l’Arcangelo Gabriele, in rame dorato, il quale non solo ha il compito di proteggere la città, ma anche di indicare  la direzione dei venti. 

Il Campanile della chiesa di Santa Maria di Castello, con l’Arcangelo Gabriele che svetta dall’alto dei 43 metri (foto di Lorenza Fiorilli)

La Loggia del Lippomano che costeggia la salita verso il Castello (Foto di Lorenza Fiorilli)

Un altro particolare della salita che conduce al castello (foto di Lorenza Fiorilli)

Tra i Musei Civici  ospitati proprio all’interno del Castello, spicca l’interessantissimo Museo del Risorgimento ma, nel corso dell’anno, sono allestite anche mostre temporanee.

Il castello che si intravede lungo la salita (foto di Lorenza Fiorilli)

Nonostante il nome ufficiale sia, appunto,  “Castello di Udine”,  l’edificio ha più le fattezze di un palazzo che quelle di una costruzione di difesa ed anche qui risiede il suo fascino particolare, che lo si assapora e lo si gusta durante la visita, terminata la quale, si  viene ammaliati dal panorama che si gode da lassù, dove sono ben visibili le Alpi.

La Casa della Contadinanza e, sullo sfondo, le Alpi (foto di Lorenza Fiorilli)

Sul prato posteriore al Castello, spicca la Casa della Contadinanza, che prende il nome proprio dal fatto che fu sede dell’assemblea dei contadini friulani i quali volevano tutelare, nel XVI secolo, i loro interessi di classe lavoratrice.

Una volta percorsa la strada in senso contrario, si può ammirare, alla sinistra dell’Arco Bollani, la Loggia di San Giovanni con la torre dell’Orologio e i due Mori, anche questi di spiccato gusto veneziano.

La Loggia San Giovanni e, in lontananza, il campanile del Duomo di Udine ( foto di Lorenza Fiorilli)

La torre del’Orologio con i due mori (foto di Lorenza Fiorilli)

Volgendo le spalle alla Loggia, eccone un’altra, la più famosa, quella vista tante volte quando sui libri di geografia delle elementari quando  si studiava Udine: la Loggia del Lionello.

La Loggia del Lionello (foto di Lorenza Fiorilli)

 

La sua facciata, in marmo rosa e bianco, il suo porticato, con il suo gioco di luci ed ombre ti avvolge, così come la bellezza della pavimentazione a scacchiera.

E quando ti addentri per le vie e le piazze di Udine capisci che il suo fascino discreto ti ha conquistato…ormai per sempre.

Uno scorcio del centro storico di Udine (foto di Lorenza Fiorilli)

Un altro scorcio (foto di Lorenza Fiorilli)

Alessandra Fiorilli

 

I racconti di Mila e Pila- 2 Gennaio: è l’ora dei saluti- 7° ed ultima parte

Rimangono così per dei minuti, io non oso dire niente mi limito a guardarmi intorno per salutare, nell’anima, uno per uno, tutti gli oggetti che mi hanno fatto compagnia in queste due settimane.

Arrivederci vecchio macinacaffè dalla manovella rotta, caro paiolo di rame, carissimo camino, compagno di tante serate.

Non sono triste perché sono certa che non è un addio ma è solo un arrivederci.

Abbraccio anch’io la nonna ed esco da casa con mio padre che non si gira neanche una volta lungo il viale che ci conduce alla strada dove ci sta aspettando il taxi.

Io invece mi giro verso il casolare e posso scorgere la nonna che, intanto, alitando sul vetro della finestra, ha scritto queste parole: “E’ giusto che sia così”.

Non è passato neanche un anno da quando, invece, aveva scritto sul vetro:

“Non è giusto”.

Oggi, dopo che papà è riuscito dopo tanti anni a esprimere alla nonna tutto il suo profondo amore, ha capito che le cose stanno andando com’è giusto che vadano.

E così noi tre a Chicago, e la nonna in questo casolare, in attesa, però, che lei riesca a vincere la paura del volo e ci venga a trovare nella città del vento.

Salgo sul taxi e senza farmi vedere da papà, alito sul vetro, poi, però, non scrivo più nulla, allora penso di essere cresciuta, finalmente.

Basta messaggi sul vetro, sono grande ormai, e quando sentirò la necessità di dire qualcosa la dirò e non lo affiderò a un vetro appannato.

Il taxi parte e dietro di noi il casolare della nonna diventa sempre più piccolo, sino a scomparire del tutto.