Lungo via Partenope, scendendo dal quartiere San Ferdinando, o dopo aver percorso il lungomare Caracciolo, non si può fare a meno di notarlo: lui spicca sulla distesa di acqua salata, in tutta la sua elegante maestosità e già il nome serba in sé elementi di una leggenda antica. “Castel dell’Ovo”, difatti, si chiamerebbe così per quell’uovo che il poeta Virgilio avrebbe nascosto nei sotterranei dell’edificio e al quale avrebbe consegnato non solo il destino dell’intera fortezza, ma di tutta la città di Napoli.
L’isolotto di tufo, il cui nome è Megaride, e sul quale svetta il castello, è unito alla terraferma da un delizioso ponte illuminato, al momento del crepuscolo, da une serie di lampioni che donano alla fortezza quel senso di magica ebbrezza che ti cattura e ti fa provare quasi un senso di smarrimento.
Castel dell’Ovo visse poi alterne vicende nel corso dei secoli: complesso conventuale dei monaci benedettini, sede della corte di Ruggiero il Normanno, avamposto militare all’epoca dei Borbone, che procedettero a fortificarlo ulteriormente.
Attualmente Castel Dell’Ovo è visitabile e, dopo aver superato la scalinata d’ingresso, si sale fino alla terrazza dell’ultimo piano che ospita ancora, intatti, i cannoni, terrazza dalla quale il panorama è mozzafiato, specie al tramonto, quando il cielo si trasforma in una tavolozza di colori che vanno dal giallo intenso all’arancione, a quel rosso che incanta i sensi.
E quando si scende di nuovo e si supera il ponte, non si può andar via senza vistare il delizioso Borgo dei Marinari proprio ai piedi della fortezza che vorrai rivedere ogni volta che tornerai a Napoli.
Napoli è così: sospesa, come lei sa fare, tra “sacro” e profano” e questa fusione tra due facce della stessa medaglia, è visibile ovunque poggi lo sguardo. E così, in uno dei tanti vicoli, puoi trovare la statua della Madonnina, oggetto di devozione “sacra”, gelosamente custodita in un’edicola ornata di fiori, e poi, qualche metro più in là, decine e decine di persone con i numeri da giocare, per la devozione “profana” che il popolo di Napoli ha per il lotto. E poi c’è il “sacro” rito del pranzo domenicale, con il famoso “rrau’ ch’adda ppippià”, e il “profano” strett-food che coinvolge tutti: bambini, adolescenti, giovani, anziani…perché mangiare in strada il famoso “cuopp” di terra o di mare, la pizza a portafoglio, la sfogliatella, non è placare lo stomaco, ma fare un regalo all’ anima.
E poi, ancora, c’è il “sacro” delle vie dello shopping elegante e della movida, e il “profano” dei “vasci” nei Quartieri Spagnoli…
In questa perfetta mistura s’inserisce anche la storia singolare del “Chiaja Hotel de Charme”, situato nell’omonima via di Napoli. E così, in un “sacro” palazzo nobiliare del 1700, il palazzo Giroux, l’intero primo piano ha visto fondersi un appartamento appartenuto al Marchese Lecaldano Sasso la Terza con il “profano” di una ex casa di tolleranza chiusa con la legge Merlin. Ma entriamo insieme in questo stabile: ad accoglierci c’è un maestoso portone che, di sera, viene chiuso e il cui accesso è consentito da una porticina ricavata all’interno del portone stesso. Nel cortile d’ingresso c’è ancora il portinaio nella sua stanzetta e, dopo essere saliti sulla scala in stile vanvitelliano, si accede nell’ albergo, nato nel 2001 proprio da una commistione, appunto, di “sacro” e di “profano”.
Gli ospiti di quest’albergo possono, così, trovarsi immersi in due atmosfere completamente diverse tra loro ma che i proprietari hanno saputo fondere. Alcune camere si trovano, infatti, nell’antica Casa Lecaldano Sasso la Terza, che fu abitata tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 proprio dal Marchese Nicola, altre, invece, sono ubicate nello storico “Casino di Salita S. Anna di Palazzo”, chiuso nel 1958 dalla legge Merlin. Come è avvenuta questa fusione tra il “sacro” e “profano”, ce lo svela direttamente Pietro Fusella, pronipote del Marchese Lecaldano, nonché Direttore del Chiaja Hotel de Charme. “Era l’anno 2001 e Napoli non viveva un momento felice e non si presentava come oggi, con la grande area pedonale di via Chiaia e via Toledo. C’era, inoltre, una crisi degli alloggi e la proprietà immobiliare della nostra famiglia si stava degradando, così venne l’idea di procedere ad una ristrutturazione e di adibire l’appartamento al primo piano di palazzo Giroux ad uso ufficio, ma io proposi di farne un albergo, in un momento dove le strutture recettive di Napoli si trovavano solo sul lungomare Caracciolo e nei pressi della stazione ferroviaria. La ristrutturazione non riguardò solo l’appartamento, ma anche quei mobili e quelle suppellettili che sono attualmente ospitate nell’ingresso con il camino e nelle varie stanze. In tutto furono ricavate 14 camere: il nostro albergo era una vera bomboniera: piccolo e molto curato negli ambienti e con l’atmosfera di una casa nobiliare di fine 1800. Le cose andarono talmente bene che, dopo appena un anno di attività, decidemmo di ingrandire la struttura, acquistando un appartamento adiacente al nostro, che ci avrebbe consentito di occupare l’intero primo piano di Palazzo Giroux.Solo quando entrammo ci accorgemmo che si trattava, in realtà, di una casa di tolleranza chiusa dalla legge Merlin del 1958, il cui ingresso non era su via Chaia, ma sulla traversa accanto, strategicamente posta nel vicolo Sant’Anna di Palazzo. Così come avevamo fatto per l’appartamento del nostro avo, procedemmo alla ristrutturazione, puntando su tappezzerie dai colori carichi, mantenendo intatta la bellissima vetrata liberty, lasciando altresì, in bella vista, il tariffario dell’epoca”.
Chiedo a Pietro Fusella in che modo fu accolta questa fusione: “Con grande e vivo interesse, nonché con curiosità. Alcune signore emiliane, ad esempio, ci chiedono, espressamente, al momento della prenotazione della stanza, che la stessa sia ubicata nell’ex casa di tolleranza. Moltissimi sono incuriositi dai vecchi oggetti originali esposti nel corridoio. Resistenza fiera solo da una coppia di giovani francesi che, trovatisi di fronte a questa novità, si rifiutarono categoricamente di soggiornare in una di quelle stanze e chiesero, quindi, di essere trasferiti nella parte della casa del Marchese Lecaldano”. Oltre a questa inusuale commistione, un’altra particolarità del Chiaja Hotel de Charme è che ogni stanza ha un nome proprio: nell’appartamento del Marchese ci sono, tra le altre, la stanza “e don Nicola”, la stanza “e Zi Checchina”, mentre nel vecchio casino, si trova quella intitolata a Anastasia ‘a Friulana, Mimì do’ Vesuvio, Dorina da Sorrento. Questa struttura alberghiera al centro di Napoli è strettamente legata anche alla vita culturale della città, come ci dice il Direttore Pietro Fusella: “Un giorno di tanti ani fa, in una Napoli che ancora sonnecchiava, incontrai un amico, al quale chiesi: “Che vogliamo fare?”. E così nacque l’idea di organizzare, nel mio albergo, qualche incontro di poesia. Da allora non è mai venuto meno l’interesse per questa che è diventata una manifestazione patrocinata dal Comune di Napoli. Quest’anno abbiamo festeggiato i 10 anni di “Poetè”, questo il nome dell’evento, e da novembre ad aprile abbiamo un fitto calendario di eventi, tanto che alcune sere sono previste le presentazioni di due libri”.
Il tramonto a mare…un momento in cui la nostalgia del sole che sta andando via si fonde perfettamente con la speranza del nuovo che sta per arrivare.
Il cielo arrossisce perché pensa alle ore trascorse con il sole e noi ci emozioniamo con lui.
Queste foto sono state scattate sul lungomare Caracciolo a Napoli, in un sabato pomeriggio brulicante di gente.
Il lungomare del capoluogo campano è un abbraccio nel quale cittadini e turisti si abbandonano volentieri: Posillipo, Mergellina, il Vomero che tutto domina dall’alto, e Castel dell’Ovo, la fortezza collegata da un ponticello alla terraferma.
E quando il cielo ha cominciato a dare spettacolo di sé la gente non può fare a meno di fermarsi a guardare…
“Sono 40 anni che abito a Napoli e il sabato, quando il tempo lo permette, non me ne perdo mai uno …non so perché ma in quell’istante percepisco tutta la forza della natura e il rispetto che dovremmo portarle”, dichiara Luisa, mentre il nipotino che ha in braccio indica stupefatto, con le manine, questo arrossire del cielo.
“Il tramonto mi ammanta il cuore di nostalgia– dice invece Maurizio, che sta trascorrendo il fine settimana a Napoli con la moglie- davanti a questo spettacolo, mi viene sempre in mente mio padre, con il quale amavo vedere i tramonti dal lungomare della mia città natale ”.
Poi ci sono loro, gli adolescenti innamorati che si immortalano, con un selfie, in questa cornice incantevole, postando la foto sui Social.
E mentre siamo tutti lì, a guardare la perfetta fusione del mare, del cielo, della terra, penso agli emigranti che hanno lasciato la loro Napoli per andare oltreoceano e così mi sovvengono le parole della canzone “Lacreme napulitane”: “E nce ne costa lacreme st’America a nuje, napulitane! Pe nuje ca ce chiagnimmo ‘o cielo è Napule, comm’è amaro ‘stu ppane!”
E mentre il mio pensiero vola alle città americane dove i nostri connazionali non potevano più assistere allo spettacolo del tramonto…noi, invece, abbiamo la fortuna di stare li, per salutare il sole e donarlo ai nostri simili che vivono nell’altro emisfero.